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Cass. Pen., sez. II, ud. 28 giugno 2023 (dep. 19 luglio 2023), n. 31478

- 3 Ottobre 2023

SOMMARIO: 1. Massima. 2. Svolgimento del processo. 3. Motivi della decisione. 4. Dispositivo.

Massima

Va rimessa alle Sezioni Unite la questione, oggetto di contrasto giurisprudenziale, circa la sussistenza o meno di continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all’art. 346, comma 2 cod. pen., abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), L. 9 gennaio 2019, n. 3, e quello di traffico di influenze illecite di cui al novellato art. 346-bis cod. pen.

Svolgimento del processo 

All’imputato, detenuto presso la Casa circondariale di Frosinone, in concorso con un agente di Polizia penitenziaria non identificato in servizio presso la stessa struttura, era contestato di avere indotto un altro detenuto, prospettandogli l’imminente trasferimento presso un istituto penitenziario della Sardegna, a promettere la somma di euro 3.000 al fine di evitare il trasferimento. Tale somma sarebbe stata suddivisa tra l’imputato e l’agente rimasto ignoto.

Sulla base di tale contestazione, il Tribunale di Roma condannava il ricorrente per il reato di cui all’art. 319- quater cod. pen. con sentenza confermata dalla Corte di appello di Roma.

A seguito di ricorso dell’imputato, la VI Sezione della Corte di Cassazione annullava con rinvio tale pronuncia, ritenendo che, nel caso di specie, non potesse ravvisarsi né la prova dell’accordo tra indotto ed induttore né la prova dell’abuso dei poteri da parte del pubblico agente.

All’esito del giudizio di rinvio, la Corte di appello di Roma riqualificava il fatto ai sensi dell’art. 346-bis cod. pen., ritenendo sussistere la continuità normativa di detta fattispecie rispetto all’abrogato reato di millantato credito già previsto dall’art. 346 cod. pen., vigente alla data di commissione del fatto contestato.

Avverso tale pronuncia il ricorrente propone due motivi di impugnazione, lamentando, in primo luogo, che la configurazione del reato di traffico di influenze illecite deve essere esclusa quando non sia accertata una situazione fattuale caratterizzata dalla effettiva esistenza di una relazione e di una capacità di condizionare o di orientare la condotta del pubblico ufficiale e, in secondo luogo, che non si ha rapporto di continuità normativa tra il reato in esame e il reato di millantato credito, previsto e punito dall’art. 346 cod. pen., abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), legge 9 gennaio 2019, n.3.

Sussistendo un contrasto di giurisprudenza in ordine alla questione articolata nei due motivi di ricorso, la Seconda Sezione della Corte di Cassazione rimette, ai sensi dell’art. 618, co. 1 cod. proc. pen., il ricorso alle Sezioni Unite.

Motivi della decisione

(…)

In ordine all’esistenza o meno di un nesso di continuità normativa tra la formulazione vigente dell’art. 346-bis cod. pen. e l’ormai abrogato secondo comma dell’art. 346 cod. pen. si contendono il campo due distinti orientamenti, la cui divaricazione può dirsi provocata essenzialmente dal requisito delle relazioni con il pubblico ufficiale o con l’incaricato di pubblico servizio.

L’orientamento che propende per la continuità normativa fa perno sui seguenti argomenti.

La “nuova” ipotesi di traffico di influenze illecite ingloba anche la condotta del soggetto che si sia fatto dare o promettere da un privato vantaggi personali, rappresentandogli la possibilità di intercedere a suo vantaggio presso un pubblico ufficiale, a prescindere dall’esistenza o meno di una relazione con quest’ultimo.

La norma equipara, dunque, sul piano penale, la mera vanteria di una relazione o di un credito con un pubblico funzionario soltanto asserita ed in effetti insussistente (dunque la relazione solo millantata) alla rappresentazione di una relazione realmente esistente con il pubblico ufficiale da piegare a vantaggio del privato.

Ne consegue allora che la condotta contemplata dal nuovo art. 346-bis cod. pen. racchiude la precedente contemplata dall’art. 346 cod. pen., là dove sanzionava la condotta di chi “millantando credito” presso un funzionario pubblico “riceve o fa dare o fa promettere a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione” (comma 1) ovvero “col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare (comma 2). Sostanzialmente sovrapponibili sono, invero, tanto la condotta “strumentale” (stante l’equipollenza semantica fra le espressioni “sfruttando o vantando relazioni (…) asserite e quella “millantato credito”), quanto la condotta principale di ricezione o di promessa, per sé o per altri, di denaro o altra utilità.

L’opposto orientamento, che propende per la discontinuità normativa, si fonda, invece, sui seguenti argomenti.

In primo luogo, la condotta contemplata dall’abrogato art. 346, comma 2 si sostanziava in una forma speciale di truffa (come reso evidente dall’espresso riferimento al “pretesto”, termine che evoca la rappresentazione di una falsa causa posta a base della richiesta decettiva idonea ad indurre in errore la vittima che si determina alla prestazione patrimoniale) e, pertanto, deve ritenersi ora integrare il delitto di cui all’art. 640, comma 1 cod. pen.

In secondo luogo, per mezzo della nuova ipotesi di reato, il legislatore ha inteso anticipare la soglia di punibilità rispetto a condotte prodromiche alle più gravi condotte di corruzione, come reso ancor più evidente dalla clausola di sussidiarietà posta ad apertura della norma con riferimento agli artt. 318, 319, 319-ter e nei reati di cui all’art. 322-bis cod. pen. Si tratta di condotte che difficilmente avrebbero potuto integrare il delitto di corruzione (neppure nella forma tentata) e che fanno presagire come la tutela siano eminentemente volta a salvaguardare l’attività della pubblica amministrazione nelle sue varie articolazioni nazionali ed internazionali.

In terzo luogo, un reato che era rivolto in maniera preponderante alla tutela del patrimonio della vittima truffata dal “venditore di fumo” difficilmente si presta a realizzare un vulnus alla pubblica funzione. Se ne ricava allora che non vi è necessità di una tutela rispetto a fatti che nessun collegamento, sia in astratto che in concreto, potrebbero avere con gli interessi pubblici teleologicamente tutelati dalla norma penale in esame.

In quarto luogo, il comma 2 dell’art. 346-bis cod. pen. ha previsto la punizione con identica pena (da un anno a quattro anni e sei mesi di reclusione) del soggetto che “indebitamente” dà o promette denaro o altra utilità, fattispecie penale che mal si concilia con un’ipotesi – seppur particolare – di truffa. Non si comprende, del resto, come possa ipotizzarsi da parte del “truffato” un’aggressione al bene giuridico che la norma intende preservare.

Infine, preponderante risulta essere la mancata riproposizione del termine “pretesto” che fondava il carattere autonomo della fattispecie di cui all’art. 346, comma 2, cod. pen. Sotto tale aspetto, invero, il riferimento “al vanto a relazioni asserite” non può essere inteso come condotta sovrapponibile a quella posta in essere con l’inganno (resa palese con il termine “pretesto”), dovendosi ritenere che l’enunciazione da parte del mediatore-faccendiere al rapporto con i pubblici poteri non sia rivolto ad indurre in errore per mezzo di artifici e raggiri il cliente, quanto necessariamente a prospettare, seppure non in termini di certezza, la concreta possibilità di influire sull’agente pubblico. In altri termini, la condotta del mediatore-faccendiere è tesa non a sfruttare una relazione inesistente ma a vantare la concreta possibilità di riuscire ad influenzare l’agente pubblico, comportamento che si pone, a ben osservare, nella fase immediatamente prodromica rispetto alla commissione di uno dei reati enunciati nella clausola di sussidiarietà contenuta nell’incipit della norma penale di cui all’art. 346-bis cod. pen.

(…)

Dispositivo

Rimette il ricorso alle Sezioni Unite.

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