SOMMARIO: 1. Massima. 2. Svolgimento del processo. 3. Motivi della decisione. 4. Dispositivo.
Massima
L’inutilizzabilità dei dati raccolti in violazione dei codici deontologici di cui al d.lgs. n. 196/2003, nel periodo anteriore alla novella introdotta dal d.lgs. n.101/2018, è da intendersi come “assoluta”, quindi rilevante in sede processuale che extraprocessuale; l’ inutilizzabilità “assoluta” determina l’impossibilità sia per il datore di lavoro di porli a fondamento di una contestazione disciplinare e poi di produrli in giudizio come mezzo di prova, sia per il giudice di merito di porli a fondamento della sua decisione.
Svolgimento del processo
La Corte d’ Appello di Milano con sentenza pubblicata in data 23.06.2020 ha accolto il gravame proposto dalla società OMISSISavverso la decisione resa dal Tribunale locale con la quale, a seguito di impugnativa di licenziamento, accoglieva la domanda principale del lavoratore e ordinava la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro.
La Corte d’Appello accoglieva il gravame, respingeva tutte le domande dell’ex dipendente e lo condannava a restituire quanto in ipotesi percepito in esecuzione della sentenza di primo grado.
Avverso la sentenza citata, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite del proprio difensore, affidando le proprie censure a dodici motivi complessivi.
Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la nullità del procedimento per violazione dell’art. 83 d.l. n. 18/2020, nonché delle linee guida della Presidenza della Corte d’Appello di Milano, per avere la società depositato note scritte non limitate alle sole conclusioni, bensì vere e proprie note difensive non autorizzate, contenenti due documenti allegati, sui quali non sarebbe stato garantito il contraddittorio, come invece previsto dalle predette linee guida.
Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta l’omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione fra le parti, a causa dell’omessa considerazione dell’inutilizzabilità e/o inammissibilità dei dati estratti dal sistema WFP.
Con il terzo motivo, lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 4 L. n. 300/1970, 2119, 2014 e 2106 c.c., del d.lgs. n. 196/2003 vigente al tempo dei fatti, nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c., per non avere la Corte territoriale considerato applicabile l’art. 4 L. n. 300/1970.
Con il quarto motivo, cuore pulsante della sentenza, il ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto storico determinate ai fini della decisione e oggetto di discussione fra le parti, addebitando alla Corte territoriale l’omessa considerazione della mancata indicazione, nel mandato investigativo, dei nominativi degli investigatori delegati all’esecuzione delle indagini.
Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c., 2, 3, 4, 8 e 18 L. n. 300/1970, 11 e 12 d.lgs. n. 196/2003, 8 del relativo allegato A.6, 2, 3, 13, 14 e 15 Cost. sul diritto alla riservatezza, nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c., come conseguenza dell’omesso esame oggetto del quarto motivo.
Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto storico determinante ai fini della decisione e oggetto di discussione fra le parti, ossia l’avvenuto conferimento del mandato investigativo da parte di un soggetto.
Con il settimo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1703 e 2119 c.c., 2, 3, 4, 8 e 18 L. n. 300/1970, 11 e 12 d.lgs. n. 196/2003 del relativo allegato A.6, nonché degli artt. 2, 3, 13, 14 e 15 Cost. e degli artt. 115 e 116 c.p.c.
Con l’ottavo motivo, lamenta l’omesso esame di un fatto storico determinate ai fini della decisione e oggetto di discussione fra le parti, per avere la Corte territoriale omesso di pronunziare sull’eccepita mancanza, in capo alla OMISSIS, delle prescritte licenze prefettizie.
Con il nono motivo, lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 134 TULPS e del D.M. n. 269/2010, nonché – nuovamente – degli artt. 11 e 12 d.lgs. n. 196/2003, 2, 3, 13, 14, e 15 Cost., nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c., per avere la Corte territoriale ritenuto legittime le investigazioni pur in assenza delle necessarie licenze prefettizie.
Con il decimo motivo, lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3, 4, 8 e 18 L. n. 300/1970, 45 ccnl telecomunicazioni, nonché degli 115 e 116 c.p.c., per avere la Corte territoriale ritenuto legittime le indagini investigative nonostante fossero attinenti all’adempimento della prestazione lavorativa.
Con l’undicesimo motivo, lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 47 e 48 ccnl telecomunicazioni, 2119 e 2106 c.c., 30 L. n. 183/2010, 18 L. n. 300/1970, per avere la Corte territoriale omesso di verificare se gli addebiti disciplinari potessero rientrare in una sanzione conservativa.
Con il dodicesimo motivo, lamenta in ultimo la violazione e falsa applicazione degli artt. 2119, 2106 c.c., 18 L. n. 300/1970, 2712 e 2719 c.c., 21 e 23 d.lgs. n. 82/2005 (codice dell’amministrazione digitale), 155 [rectius 115] e 116 c.p.c. per avere la Corte territoriale fondato la sua decisione anche sugli “estratti della procedura aziendale, registrazione dei dati del badge”, di cui egli aveva contestato l’idoneità rappresentativa dei fatti contestati, sia in relazione all’autenticità, sia in relazione al contenuto, sia in relazione alla riconducibilità di quei dati al lavoratore.
Motivi della decisione
(…)
Gli elementi valutati dalla Corte di cassazione possono essere così evidenziati:
– i primi tre motivi di gravame, esaminati congiuntamente dal Supremo Collegio, vengono dichiarati infondati e pertanto, rigettati.
La difesa con tali doglianze lamentava in primo luogo, la violazione del contraddittorio in quanto il deposito di documenti e note difensive era avvenuto mediante una modalità pregiudizievole del diritto di difesa dell’imputato. Sul punto la Corte sancisce che, la presunta violazione invocata dalla difesa, si sostanzia in una violazione meramente formale e non sostanziale, in quanto inidonea ad incidere sul diritto di difesa dell’imputato. Le note depositate non hanno avuto una concreta e decisiva rilevanza in merito al convincimento della Corte territoriale, ragion per cui la decisione resa non risulta affetta da alcun vizio.
Anche la doglianza in merito all’applicabilità degli artt. 2 e 3 L. n. 300/1970 non viene accolta.
La Corte, ribadendo un principio già affermato, ha sottolineato che le disposizioni di cui all’art. 2 dello statuto dei lavoratori, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest’ultimo di ricorrere ad agenzie investigative, purché queste non sconfinino nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria. Nel caso di specie l’affidamento risultava giustificato in quanto volto all’accertamento di condotte illecite.
Il cuore pulsante di tale sentenza è rappresentato dal quarto e quinto motivo di gravame, entrambi accolti dalla Suprema Corte, ed idonei ad assorbire i restanti sette.
Ragioni di chiarezza espositiva impongono un’imprescindibile disamina dei fatti dai quali la questione, di seguito enucleata, trae origine: l’attività di investigazione era stata eseguita da soggetto appartenente a società diversa da quella incaricata dalla committente, senza alcuna indicazione del rispettivo nominativo all’interno del mandato.
Secondo la Corte tale carenza, comprometteva a ritroso la legittimazione dei soggetti che avevano materialmente acquisito le informazioni, determinando l’illegittimità del trattamento e di conseguenza l’inutilizzabilità assoluta delle informazioni stesse.
Il potere del datore di lavoro di effettuare controlli, anche di tipo occulto, sui propri dipendenti – sulla base di concreti indizi –, deve essere esercitato assicurando un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore.
L’investigatore privato, nello svolgimento della propria professione, è sottoposto al rispetto scrupoloso non soltanto dei dettami previsti dall’articolo 260 del Regio Decreto 6 maggio 1940, n. 635 (Regolamento per l’esecuzione del TULPS) e dal D.M 269/10 in materia di investigazione privata, ma anche quelli statuiti dal GDPR (General Data Protection Regulation) in materia di trattamento dei dati personali e nei Codici Deontologici di categoria.
Secondo le “Regole deontologiche relative ai trattamenti di dati personali effettuati per svolgere investigazioni difensive o per fare valere o difendere un diritto in sede giudiziaria pubblicate ai sensi dell’art. 20, comma 4, del d.lgs. 10 agosto 2018 n. 101 – 19 dicembre 2018” pubblicate dal Garante privacy: “L’investigatore privato deve eseguire personalmente l’incarico ricevuto e può avvalersi solo di altri investigatori privati indicati nominativamente all’atto del conferimento dell’incarico, oppure successivamente in calce a esso qualora tale possibilità sia stata prevista nell’atto di incarico”.
Alla luce del dato normativo, risulta indispensabile che i nominativi di eventuali altri professionisti coinvolti nell’ indagine siano indicati nell’incarico all’atto del conferimento, o successivamente allo stesso qualora l’esigenza sia sopravvenuta.
La sanzione dell’inutilizzabilità s’impone in forza di quanto prescritto dall’art. 11 co. 2 del d.lgs. 196/2003 “Codice Privacy” (nella sua vecchia formulazione), norma abrogata dal d.lgs. 101/2018 che l’ha sostituita con l’art. 2-decies, di identica formulazione, ad eccezione del richiamo all’art. 160 bis d.lgs. 196, (quest’ultimo pure introdotto nell’anno 2018).
La difesa della società invocava sul punto teorie dottrinali elaborate nell’ambito del diritto civile e del diritto processuale civile, per le quali la disciplina del trattamento dei dati sarebbe irrilevante nell’ambito del processo civile che resterebbe ancorato esclusivamente alle proprie regole; la Corte nel disattendere alle stesse ci offre un’interpretazione che pone in rilievo la necessità di una lettura organica dell’ordinamento giuridico, inteso come totalità unitaria, che risponde al generale postulato di coerenza e completezza dello stesso, cui l’interprete è chiamato a soddisfare nella sua ordinaria attività.
Aderendo a quanto affermato dalla dottrina, si finirebbe per porre l’ordinamento in contraddizione con sè stesso, poichè da un lato si qualificherebbe quel trattamento dei dati come “illecito”, dall’altro si permetterebbe la produzione di quei dati in un giudizio civile, ossia una diffusione altrimenti vietata.
Sulle ceneri di un formalismo statuale del diritto, la Corte con tale pronuncia si rende promotrice di una cultura giuridica volta ad allontanare abituali meccanismi interpretativi di settorializzazione, al fine di prediligere interpretazioni armoniose delle norme che diano effettività ai principi generali dell’ordinamento.
Gli Ermellini attraverso una comparazione tra la vecchia e la nuova disciplina, giungono all’affermazione del principio di diritto per cui l’inutilizzabilità, di natura assoluta, si fonda in chiave funzionale: “la ratio della norma è quella di scoraggiare la ricerca, l’acquisizione e più in generale il trattamento abusivo di dati personali, e per realizzare questa funzione il rimedio previsto dal legislatore è quello di impedirne la realizzazione dello scopo”.
La sentenza in commento tra l’altro, ha il pregio di rimarcare il valore “normativo” dei Codici Deontologici sostenendo che, non sussistono dubbi sulla valenza “normativa” delle prescrizioni contenute nei codici deontologici. Essa è conferita dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 12, in quanto se ne prescrive un regime di pubblicità sulla Gazzetta Ufficiale ed il relativo rispetto, al comma 8, è posto come “condizione essenziale per la liceità e correttezza del trattamento dei dati personali effettuato da soggetti privati e pubblici”. Il Supremo Collegio ritiene dunquem che la qualificazione giuridica in termini di “illiceità” del trattamento, qualora non rispettoso delle regole conformative dettate dai predetti codici, implica necessariamente la natura normativa ed inderogabile della fonte violata.
(…)
Dispositivo
La Corte, rigetta i primi tre motivi, accoglie il quarto ed il quinto, dichiara assorbiti gli altri.
Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione, per la decisione del merito e per la regolamentazione delle spese di tutti i gradi e del presente giudizio di legittimità.