
SOMMARIO: 1. Massima. 2. Svolgimento del processo. 3. Motivi della decisione. 4. Dispositivo.
Massima
La sessualità è uno degli essenziali modi di espressione della persona umana; tuttavia, non può ridursi il tema dell’affettività del detenuto a quello della sessualità, in quanto esso più ampiamente coinvolge aspetti della personalità e modalità di relazione che attengono ai connotati indefettibili dell’essere umano. Il volto costituzionale della pena richiede che questa non implichi una sofferenza eccedente la misura necessaria. La dignità della persona (art. 3, primo comma, della Costituzione), soprattutto nel caso dei detenuti, il cui dato distintivo è la precarietà degli individui, derivante dalla mancanza di libertà, in condizioni di ambiente per loro natura destinate a separare dalla società civile, è dalla Costituzione protetta attraverso il bagaglio degli inviolabili diritti dell’uomo, che anche il detenuto porta con sé lungo tutto il corso dell’esecuzione penale.
L’impossibilità per il detenuto di esprimere una normale affettività con il partner si traduce in un vulnus alla persona nell’ambito familiare e, più ampiamente, in un pregiudizio per la stessa nelle relazioni nelle quali si svolge la sua personalità, esposte pertanto ad un progressivo impoverimento, e in ultimo al rischio della disgregazione.
L’intimità degli affetti non può essere sacrificata dall’esecuzione penale oltre la misura del necessario, venendo altrimenti percepita la sanzione come esageratamente afflittiva, sì da non poter tendere all’obiettivo della risocializzazione.
Svolgimento del processo
La presente pronuncia trae origine da un’ordinanza di rimessione presentata dal Giudice di Sorveglianza di Spoleto, il quale, invocando una presunta illegittimità costituzionale dell’articolo 18 della L. n. 354/1975 (comunemente nota come ordinamento penitenziario) nel punto in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a colloqui intimi ed individuali, non sorvegliati, con il proprio partner, osserva come la questione non possa essere liquidata – come era avvenuto in passato con il precedente più autorevole sul punto, la sentenza n. 301/2012 – mediante una delibazione di inammissibilità per motivi di non rilevanza e manifesta infondatezza. Piuttosto, per il giudice a quo, sarebbe opportuno trattare la questione nel merito, analizzando la presunta incompatibilità costituzionale alla luce dei parametri degli articoli 2, 3, 13, primo e quarto comma, 27, terzo comma, 29, 30, 31, 32 e 117, primo comma, della Costituzione.
La Consulta ha optato per la dichiarazione di illegittimità costituzionale mediante sentenza di accoglimento parziale, mediante le forme della sentenza additiva di principio.
Nelle previsioni del giudice delle leggi, infatti, vi è la speranza che il legislatore assolva al proprio ruolo mediante la formulazione di linee guida legislative per rendere efficace il contenuto della pronuncia in esame. Tuttavia, permangono perplessità su come effettivamente agirà il legislatore e, di conseguenza, come agirà l’amministrazione penitenziaria.
Le perplessità si legano ad una costante e già registrata inerzia del legislatore nel rispondere ai moniti della Consulta.
Seppur in questo caso si abbia una situazione parzialmente differente rispetto, ad esempio, al caso ergastolo ostativo (accomunato in parte dalle tematiche e dalle modalità decisorie adottate), in cui non vi è stata l’emissione di una sentenza vera e propria, quanto piuttosto ordinanze interlocutorie di rinvio, quindi veri e propri moniti di (non) decisione, nel caso in esame, la sentenza vi è stata.
La speranza è quindi quella di una cooperazione proficua tra i rami del Parlamento per attuare la decisione della Corte costituzionale.
Motivi della decisione
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La motivazione principale addotta dalla Corte a sostegno della tesi che sanziona l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario incide sul fatto che il diritto ad una normale ed ordinaria sessualità non debba costituire l’oggetto di un’istanza di permesso premio, in quanto il diritto all’affettività vissuta in maniera normale è corollario del diritto alla salute in quanto concorrente alla realizzazione di un sano sviluppo psico-fisico della persona detenuta.
Risulta quindi evidente come non possa essere un privilegio un diretto corollario del diritto alla salute: non può costituire oggetto di beneficio l’accesso ad una ordinaria vita familiare, la quale pure deve conciliarsi con la detenzione carceraria poiché rientrante nell’alveo dell’articolo 27, comma terzo, della Costituzione.
Difatti, sottolinea la Consulta, il nucleo familiare dev’essere il primo polo di reinserimento e di risocializzazione del condannato una volta riottenuta la libertà.
Nella disciplina attualmente vigente, si rischia di realizzare una situazione opposta a quella auspicata dalla Costituzione: non garantendo sufficiente attenzione al lato affettivo del nucleo familiare (non concepito soltanto come unica e sola sessualità, ma intimità in senso lato, anche nel rapporto con i figli), si perde di vista l’obiettivo principale della pena, ossia quello di rieducare il reo e reinserirlo socialmente, sfruttando magari il nucleo sociale primigenio e di principale riferimento nella vita di ognuno, la famiglia.
E’ lapalissiano, chisa la Corte costituzionale nelle motivazioni, che non facciano parte del novero dei beneficiari di tale pronuncia di incostituzionalità i detenuti al 41-bis ord. pen. poiché prevalgono le esigenze di repressione del fenomeno mafioso. In questo caso, sarebbe rischioso garantire colloqui con persone provenienti dall’esterno, in quanto si rischierebbe di destabilizzare la normativa sul punto, che prevede un particolare regime di segretezza e di sorveglianza nell’ambito dei colloqui tra detenuti “al carcere duro” e familiari.
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Dispositivo
La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie.
Dunque, servendosi della forma della sentenza additiva di principio, la Corte costituzionale ha dichiarato parzialmente illegittimo l’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, ponendosi in radicale contrasto con la sentenza n. 301/2012, che aveva sostenuto la tesi opposta a quella odierna.
Si auspica, soltanto, che il Parlamento sia attivo nell’elaborazione di criteri e linee-guida (che dovrebbero poi essere adeguatamente seguiti dall’amministrazione penitenziaria) in favore dei condannati.
E che questi non siano più costretti a fare le spese di un sistema penitenziario molto pratico e poco costituzionale, mantenendo fede all’insegnamento fornito dal comma terzo dell’articolo 27 della Costituzione.