
SOMMARIO: 1. Massima. 2. Svolgimento del processo. 3. Motivi della decisione. 4. Dispositivo.
Massima
Ai fini della richiesta di riapertura delle indagini, non occorre che siano già emerse nuove fonti di prova o che siano acquisiti nuovi elementi probatori, ma è sufficiente l’esigenza di ulteriori investigazioni. Tale esigenza può derivare anche dal contenuto di intercettazioni inutilizzabili, purché siano connotate da indiscutibile valore indiziante. In particolare, le intercettazioni eseguite a carico dell’esercente la professione forense — che sono inutilizzabili se il loro contenuto è pertinente all’espletamento del mandato difensivo, a prescindere dalla effettiva formalizzazione dell’incarico professionale — ben possono essere poste a fondamento della richiesta di riapertura delle indagini, ex art. 414 c.p.p.
Svolgimento del processo
Con ordinanza del Giudice per le indagini preliminari, veniva applicata all’indagato la custodia cautelare in carcere per il reato di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p.
Secondo la prospettazione accusatoria, condivisa dal G.i.p., il ricorrente avrebbe divulgato ad alcuni suoi assistiti il contenuto di atti relativi ad un procedimento penale che non li coinvolgeva direttamente, dei quali il professionista aveva avuto legittima conoscenza perché non più coperti da segreto.
Tali condotte sarebbero riscontrate da alcune intercettazioni telefoniche captate tra il ricorrente ed i suoi assistiti — il cui contenuto avrebbe legittimato la richiesta di riapertura delle indagini a carico del professionista, ex art. 414 c.p.p., in precedenza archiviate — nonché dalle dichiarazioni di due collaboranti di giustizia.
Il Tribunale del riesame, investito dell’istanza ex art. 309 c.p.p., riteneva utilizzabili le intercettazioni telefoniche— reputando insussistente un valido mandato difensivo, anche perché le informazioni condivise riguardavano posizioni processuali di soggetti diversi dagli interlocutori del legale — escludendo, quindi, la violazione del divieto imposto dall’art. 103 comma 5 c.p.p.
Di conseguenza, il provvedimento cautelare genetico veniva riformato solo rispetto alla tipologia di misura — sostituendo la detenzione in carcere con gli arresti domiciliari — e confermato nel resto.
L’indagato proponeva ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame deducendo:
- la nullità del decreto di riapertura delle indagini, perché fondato su intercettazioni inutilizzabili;
- la violazione degli artt. 103, 200 e 271 c.p.p., nonché vizio di motivazione rispetto alla utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche;
- la violazione degli artt. 110 e 416-bisp.p., e vizio di motivazione, rispetto alla configurabilità del reato, stante l’insussistenza di un apporto causale concreto e consapevole all’attività del sodalizio.
Nello specifico, il ricorrente si doleva della omessa disamina della documentazione prodotta al Tribunale del riesame, da cui si evinceva l’assunzione dell’incarico difensivo, in epoca antecedente le captazioni telefoniche. Al riguardo, veniva, altresì, evidenziato che le informazioni divulgate concernevano atti non coperti da segreto e, quindi, ostensibili.
Tali profili avrebbero, per un verso, determinato la nullità del decreto di riapertura delle indagini, per altro verso, inficiato la legittimità del provvedimento cautelare.
Ulteriore motivo di censura concerneva la credibilità dei collaboranti, in quanto: uno di questi avrebbe offerto un contributo dichiarativo generico, limitandosi a riferire di essersi rivolto al professionista. per valutare se gli atti di indagine relativi ad altro procedimento penale potessero avere effetti pregiudizievoli anche per la propria posizione; l’altro, invece, sarebbe stato ritenuto già inattendibile in altri procedimenti penali e, comunque, le sue dichiarazioni erano generiche e prive di riscontro.
Da ultimo, il ricorrente lamentava l’inconsistenza degli elementi a sostegno del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, trattandosi — nel caso di specie — di meri rapporti di cordialità, sforniti di un contributo effettivo al sodalizio tout court, potendo, al più, ritenersi configurata la mera agevolazione prestata al singolo sodale ed ai propri personali interessi.
Tali motivi venivano, poi, ulteriormente ribaditi con la proposizione di motivi aggiunti.
La Corte di cassazione ha accolto il ricorso, reputando fondate le prospettazioni difensive in tema di inutilizzabilità delle intercettazioni.
Motivi della decisione
(…)
La Cassazione ha preliminarmente esaminato la fondatezza della eccezione di nullità del decreto di riapertura delle indagini, attesa la pregiudizialità della questione di rito, concludendo per l’infondatezza della stessa.
Segnatamente, la Corte ha affermato che «l’art. 414 cod. proc. pen. non richiede quale condizione necessaria per l’autorizzazione alla riapertura delle indagini che siano già emerse nuove fonti di prova o che siano acquisiti nuovi elementi probatori, essendo invece sufficiente l’esigenza di nuove investigazioni (Sez. 5, n. 13802 del 17/2/2020, Cestaro, Rv. 273991), circostanza quest’ultima che è configurabile anche nel caso in cui si prospetti la necessità di valutare nuove intercettazioni, aventi portata indiziante, salvo restando che il vaglio sulla loro utilizzabilità non può che essere rimandato alla fase successiva del giudizio (…) il giudizio in ordine all’utilizzabilità della prova, pertanto, non può essere svolto in sede di autorizzazione alla riapertura delle indagini, posto che tale provvedimento è meramente finalizzato a verificare la necessità di nuovi accertamenti, senza che possa contenere anche un contenuto decisorio sulla validità delle acquisizioni »
Di conseguenza, considerato che nel sistema processuale non è configurabile la sanzione della c.d. inutilizzabilità derivata, anche in caso di inutilizzabilità delle intercettazioni poste a fondamento della richiesta di riapertura delle indagini, non ne deriverebbe l’invalidità del decreto ex art. 414 c.p.p.-
La Suprema Corte ha, poi, affrontato il punto di maggiore interesse, vale a dire quello concernente l’effettiva estensione del divieto di cui all’art. 271 comma 2 c.p.p.
La Corte ha reputato non condivisibile la ricostruzione offerta dal Tribunale del riesame, in quanto: «il divieto di utilizzazione deve essere riconosciuto anche in relazione alle ipotesi in cui un mandato difensivo non è stato formalizzato, posto che l’attività professionale ricomprende necessariamente anche quella fase di consultazione, eventualmente preliminare all’emersione stessa del coinvolgimento dell’interessato in attività di indagine ».
Nel caso di specie, la cassazione — mostrando grande senso pratico — ha reputato la rivelazione di fatti incidentalmente appresi da un procedimento penale in favore di soggetti formalmente estranei ad esso, sussumibile nella normale attività di consulenza legale, del tutto fisiologica e connaturata all’esercizio della professione, a patto che tale rivelazione non sia consapevolmente finalizzata al compimento di attività illecite.
La Corte ha concluso la disamina di tale profilo, affermando che: «il vero discrimine tra quel che attiene allo svolgimento dell’attività latamente difensiva e quel che ne è sicuramente estraneo deve essere individuato nel contenuto dei colloqui, dovendosi stabilire se questi vertono su aspetti, sia pur potenzialmente, aventi rilevanza per il coinvolgimento dell’interlocutore in un procedimento penale».
Con tale ultimo enunciato, è stato rimarcato come l’esigenza di tutelare la segretezza delle comunicazioni tra difensore e assistito — a cui risulta collegata la garanzia della inutilizzabilità delle conversazioni eventualmente intercettate — sia inscindibilmente connessa alla necessità di salvaguardare il pieno espletamento dell’esercizio del diritto di difesa dell’interlocutore.
Le informazioni rivelate dal legale al proprio assistito — pur se apparentemente slegate dalla specifica posizione processuale — se sono in qualche modo strumentali alla predisposizione di una strategia difensiva, non possono costituire l’elemento oggettivo del reato ex artt. 110-416bis c.p.
La Corte, quindi, per un verso, ha respinto l’impostazione — di rito — condivisa dal Tribunale del riesame di Catanzaro, secondo cui, per l’operatività della garanzia ex art. 103 comma 5 c.p.p., è necessaria la formale investitura di un mandato difensivo, per altro verso, ha chiarito — in merito — il perimetro di effettiva rilevanza penale dell’attività di consulenza dei legali.
Nonostante l’accoglimento del motivo sulla inutilizzabilità delle intercettazioni — di certo assorbente — la cassazione ha ravvisato la necessità di evidenziare «la scarsa significatività delle dichiarazioni dei collaboranti ritenuti attendibili di per sé non autosufficienti », spingendosi a formulare valutazioni dall’elevato contenuto di merito, tracciando, quindi, parametri stringenti a cui dovrà attenersi il giudice del rinvio.
(…)
Dispositivo
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale competente ai sensi dell’art. 309, comma 7, c.p.p.