SOMMARIO: 1. Massima. 2. Svolgimento del processo. 3. Motivi della decisione. 4. Dispositivo.
Massima
La Quinta Sezione penale, in tema di diffamazione, ha affermato che, ai fini dell’applicabilità dell’esimente prevista dall’art. 598 c.p., non rileva la cancellazione delle espressioni diffamatorie disposta dal giudice civile ai sensi dell’art. 89, comma secondo, c.p.c., essendo distinti sia i canoni valutativi cui devono conformarsi quest’ultimo e il giudice penale nell’applicazione delle diverse disposizioni, sia la portata delle stesse, atteso che per offese non riguardanti l’oggetto della causa, di cui all’art. 89 cod. proc. civ., devono intendersi quelle “non necessarie alla difesa”, pur se ad essa non estranee, mentre per “offese che concernono l’oggetto della causa”, di cui all’art. 598 c.p., devono intendersi quelle che, benché non necessarie, siano comunque strumentali alla difesa.
Svolgimento del processo
La Corte d’ Appello ha confermato la pronuncia resa dal Tribunale di prime cure con la quale i due imputati venivano assolti dal reato di diffamazione di cui all’art. 595 c.p., contestato in forma aggravata ai sensi del secondo comma del predetto articolo.
L’addebito prendeva le mosse da un’espressione inserita all’interno di un atto di citazione in revocatoria ordinaria, redatto dai due imputati nell’esercizio della loro professione forense, nei confronti di un notaio – persona offesa poi costituitasi parte civile nel processo penale – che avrebbe provocato un’offesa alla reputazione di quest’ultimo, in quanto il contenuto dell’atto redatto dagli avvocati conteneva l’accusa di esser il responsabile della morte della propria madre.
L’atto, portato poi a conoscenza di più persone a seguito della procedura di trascrizione su Pubblici Registri Immobiliari, assumeva il carattere di “atto pubblico”.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione la parte civile, per il tramite del proprio difensore, mediante la stesura di tre motivi complessivi.
Con il primo, la difesa della parte civile deduce una violazione di legge per erronea applicazione dell’art. 598 c.p., per avere la Corte territoriale erroneamente applicato l’esimente de qua.
La norma in oggetto prevede una specifica causa di esclusione della punibilità, che opera qualora le condotte presumibilmente diffamatorie trovino spazio all’interno delle aule di tribunale o negli scritti difensivi degli avvocati, al fine di garantire un libero e corretto svolgimento del processo.
Nel caso di specie, la difesa ritiene che non ci sia alcun nesso funzionale tra l’oggetto dell’atto giudiziario e l’espressione incriminata, così come richiede la norma, in quanto l’espressione adoperata non concerneva in maniera diretta ed immediata l’oggetto della controversia e non assumeva alcuna rilevanza funzionale per le argomentazioni poste a sostegno della tesi prospettata.
Ed invero, il ricorrente sottolinea che ai fini dell’azione revocatoria sarebbe stato sufficiente far riferimento al procedimento risarcitorio in corso contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale che ha sostenuto, invece, l’interdipendenza sussistente tra l’espletamento dell’azione revocatoria e l’esito dell’azione risarcitoria, in quanto solo in quest’ultima il giudice si pronuncia circa la fondatezza e l’entità del credito.
La condotta degli imputati esulerebbe dunque dal contesto di non punibilità descritto e tutelato dall’esimente, ed avrebbe il sol fine di ledere la reputazione del professionista.
Col secondo e terzo motivo, si lamenta un vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell’esimente di cui all’art. 598 c.p.-
Stante la ricostruzione difensiva, la Corte avrebbe erroneamente ricondotto la fattispecie in quella di cui all’art. 598 c.p. ed avrebbe altresì prodotto una motivazione in sentenza del tutto carente sul punto;
I giudici di secondo grado, nell’elaborare la loro ricostruzione, hanno inoltre osservato che il ricorrente avrebbe potuto difendersi, ex post, dall’accusa di aver causato la morte della madre offrendo una prova della causa effettiva del decesso di quest’ultima, preservando e tutelando in tal modo la propria innocenza.
La difesa della parte civile, sul punto, ha argomentato la propria tesi statuendo che, anche se la parte civile avesse ottemperato a tale suggerimento, la condotta sarebbe egualmente penalmente rilevante in quanto l’esercizio del diritto di difesa in merito alle accuse rivolte non risulterebbe idoneo a scriminare un reato già consumato.
La motivazione sarebbe inoltre carente, per l’indifferenza serbata dalla Corte d’ Appello in merito alle deduzioni difensive relative a false affermazioni enunciate dagli imputati.
In ultimo, la difesa sottopone all’attenzione della Suprema Corte la annosa questione giuridica inerente il discostamento operato dai giudici penali di secondo grado rispetto alla decisione invece emessa dal giudice del Tribunale, il quale ordinava la cancellazione delle espressioni offensive in ossequio a quanto disposto dall’art. 89 c.p.c.-
Ai sensi dell’art. 23 comma 8 d.l. 28/10/2020 n. 137, conv. con legge 18/12/2020 n. 176, sono state trasmesse le conclusion scritte del Sostituto Procuratore Generale, il quale ha chiesto al Supremo Collegio di pronunciarsi in seno all’inammissibilità del ricorso.
Motivi della decisione
(…)
Gli elementi valutati dalla Corte di Cassazione possono essere così evidenziati:
– in premessa, la Suprema Corte – citando un indirizzo giurisprudenziale espresso con precedente pronuncia della medesima sezione (Sez. V n. 22743 del 23/03/2011) – evidenzia che la ratio legis della norma di cui all’art. 598 c.p. è quella di garantire la massima libertà nell’esercizio del diritto di difesa; La norma assolve la funzione di garantire una copertura, più ampia rispetto a quella offerta dall’esercizio di un diritto o adempimento di un dovere di cui all’art. 51 c.p., a tutti gli atti inseriti nel contesto difensivo che devono esser ricondotti al principio di immunità giudiziale.
Sancita tale premessa, la Corte si pronuncia in merito ai motivi di gravame, mediante una congiunta trattazione, e ne dichiara l’infondatezza.
Il Supremo Collegio con tale sentenza, definisce i contorni dell’applicazione dell’esimente delle offese in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle Autorità giudiziarie e amministrative, ribadendo che in tema di diffamazione, l’applicazione della causa di non punibilità de qua è subordinata alla necessaria presenza di due condizioni: la coincidenza tra l’oggetto della causa o ricorso pendente innanzi all’autorità giudiziaria o amministrativa e le offese, ed il nesso di funzionalità che le stesse devono avere con l’argomentazione difensiva posta a sostegno della domanda o della tesi prospettata.
Quel che rileva è dunque la correlazione logica-funzionale che deve sussistere tra l’argomentazione difensiva, avente contenuto offensivo, e la causa nel corso della quale tale argomentazione viene posta in essere, a prescindere dalla fondatezza o meno delle ragioni prospettate.
In ossequio a tale principio, deve escludersi la necessità del requisito di “verità” in merito alle offese, in quanto quest’ultimo non assolve alcuna funzione in relazione alla ratio della norma, che è quella di tutelare la massima libertà nell’esplicazione del diritto di difesa.
Il Supremo Collegio prosegue la propria argomentazione, riprendendo principi in materia sanciti con precedenti orientamenti giurisprudenziali (Sez. V. n. 8421 del 23/01/2019; Sez. V. n. 6495 del 28/01/2005; Sez. V. n. 45722 del 9/11/2022) con i quali si è giunti ad affermare la sussistenza dell’esimente di cui all’art. 598 c.p. anche nei casi in cui le espressioni ingiuriose non siano né necessarie né decisive ai fini dell’economia generale dell’argomentazione, purché però inserite in un contesto difensivo.
In merito all’eccezione sollevata dalla difesa, secondo cui l’espressione offensiva fosse contenuta in un’azione revocatoria anziché in quella risarcitoria, la Corte ritiene condivisibile le conclusioni a cui è giunta la Corte D’Appello in quanto l’oggetto della controversia era connesso alla pretesa risarcitoria e stante la relazione di interdipendenza sussistente tra le due azioni.
– In merito al tema dell’asserita rilevanza della cancellazione ordinata dal giudice civile del Tribunale, ex art. 89, comma secondo cod. proc. civ., la Suprema Corte non ha ritenuto la predetta pronuncia – legittimamente emessa dal giudice civile – vincolante nel processo de quo in quanto essa soggiace a criteri valutativi diversi da quelli posti a fondamento del giudizio penale.
Ed infatti, nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione effettua una comparazione tra le due diverse norme, la cui diversità si pone ab origine in virtù del diverso bene tutelato.
A corroborare siffatta ricostruzione, la Suprema Corte offre anche una valutazione sulla collocazione sistematica delle due norme: gli artt. 595 e 598 c.p. sono inseriti nel titolo XII, dedicato ai delitti contro la persona, e nel capo II intitolato “delitti contro l’onore” laddove l’art. 89 c.p.c. è collocato nel titolo II, capo III, dedicato “doveri delle parti e dei difensori”.
La diversa natura delle due norme, nonché la loro diversa ratio, comporta l’insussistenza di un’autonoma ed immediata correlazione tra le espressioni “sconvenienti ed offensive” con quelle “lesive dell’altrui reputazione”, di rilevanza penale. La norma penale ha un contenuto ben più specifico rispetto a quella civilistica, in quanto l’offesa alla reputazione integra una valutazione circa la dignità personale in relazione ad un gruppo sociale, non rilevando la mera considerazione personale di sé stessi.
Ulteriore conferma di tale ricostruzione, atta ad evidenziare le sostanziali differenze tra i due diversi istituti giuridici che ne comportano un diverso ambito di applicazione, vi è la circostanza per cui la violazione della norma di cui all’art. 598 c.p. legittima un ricorso per cassazione contrariamente all’ipotesi di omesso esame dell’istanza di cancellazione di frasi o parole ingiuriose, ai sensi della disciplina civilistica, che per consolidato orientamento giurisprudenziale non prevede il rimedio processuale dell’impugnazione innanzi al Supremo Collegio.
In conclusione, la Corte ha affermato il principio di diritto per cui: “Ai fini dell’applicabilità dell’esimente prevista dall’art. 598 cod. pen., non rileva la cancellazione delle espressioni diffamatorie disposta dal giudice civile ai sensi dell’art. 89, comma secondo, cod. proc. civ., essendo distinti sia i canoni atteso che per offese non riguardanti l’oggetto della causa, di cui all’art. 89 cod. proc. civ., devono intendersi quelle “non necessarie alla difesa, pur se ad essa non estranee, mentre per offese che concernono l’oggetto della causa, di cui all’art. 598 cod. pen., devono intendersi quelle che, benché non necessarie, siano comunque strumentali alla difesa.
(…)
Dispositivo
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.