
SOMMARIO: 1. Massima. 2. Il fatto. 3. La decisione. 4. Conclusioni.
Massima
La causa di non punibilità prevista dall’art. 1, lett. f), n. 3) del d.lgs. del 14 giugno 2024 n. 87, che ha aggiunto il nuovo comma 3-bis all’art. 13 d.lgs. n. 74 del 2000, trattandosi di causa di non punibilità introdotta con vigenza dal 29 giugno 2024 al 1 gennaio 2026, in ragione della abrogazione ad opera dell’art. 101, comma 1, lett. cc) del d.lgs. 5 novembre 2024, n. 173, trova applicazione, in quanto norma più favorevole, retroattivamente, vertendosi in tema di norma sostanziale, ex art. 2, comma 4, c.p..
È onere dell’interessato indicare gli specifici elementi e le circostanze dai quali poter desumere che la sopravvenuta e non transitoria crisi di liquidità sia determinata da cause non imputabili all’ imputato, specificando quali siano le stesse, nonché comprovandone la posteriorità all’incasso dell’IVA e all’effettuazione delle ritenute certificate.
Il fatto
Con la sentenza impugnata, la Corte di Appello confermava la condanna a carico dell’amministratore unico di una società per i reati di bancarotta impropria da reato societario e bancarotta preferenziale (capo 1), omesso versamento all’INPS delle trattenute previdenziali (capo 4) e omesso versamento di IVA relativo all’anno di imposta 2015 (capo 3, lett. b). In parzialmente riforma della pronuncia emessa dal Giudice di prime cure, invece, dichiarava estinto per prescrizione il reato di cui all’art. 10-ter d.lgs. 74/2000 relativo all’anno di imposta 2014 (capo 3, lett. a).
Avverso tale decisione veniva proposto ricorso per Cassazione, articolato in due motivi di doglianza.
Con il primo motivo si deduceva il vizio di motivazione in ordine ai capi 3, lett. b, e 4 circa il dolo richiesto per l’integrazione delle fattispecie incriminatrici. Il ricorrente, dopo aver evidenziato la maturazione del termine di prescrizione per entrambi i reati, lamentava il mancato riconoscimento della forza maggiore impeditiva del pagamento dell’IVA, asseritamente determinata da una incolpevole carenza di liquidità, comprovata dal mancato pagamento da parte dei clienti della società.
A sostegno di tale doglianza, peraltro, si rappresentava che l’imputato avesse acceduto alla rateizzazione del debito tributario e che i pagamenti ad essa relativi non fossero stati adempiuti a causa dell’intervento del sequestro preventivo disposto dall’Autorità Giudiziaria.
Sul punto, si richiamava altresì il dettato della nuova clausola di esclusione della punibilità introdotta, ad opera del d.lgs. 87/2024, all’art. 13, comma 3-bis, d.lgs. 74/2000.
Con il secondo motivo, invece, si invocava il vizio di motivazione in ordine all’elemento soggettivo del reato di bancarotta preferenziale. A parere del ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe tenuto debitamente conto della circostanza che gli unici debiti soddisfatti erano quelli nei confronti dei lavoratori – il cui pagamento risultava necessario per salvaguardare l’attività sociale ed evitare il fallimento –; mentre per il debito tributario e previdenziale erano in atto piani di rateizzazione, il cui inadempimento era dipeso dal sopravvenuto (e già citato) sequestro preventivo.
La decisione
La Corte di Cassazione, investita della questione, ha ritenuto l’impugnazione inammissibile.
In ordine al primo motivo di censura, anzitutto, la Corte di legittimità rileva come, sebbene nell’incipit il ricorrente si riferisca sia all’omesso versamento delle trattenute previdenziali sia all’omesso versamento dell’IVA, in verità, le argomentazioni si concentrino esclusivamente su quest’ultima fattispecie, determinando l’assoluta genericità delle deduzioni relative al reato di cui all’art. 3, co. 6, d.lgs. 8/2016.
Con specifico riferimento al delitto di cui all’art. 10-ter d.lgs.74/2000, in particolare, la Suprema Corte chiarisce come il Giudice di Appello, in continuità con l’orientamento consolidato, abbia escluso la sussistenza della forza maggiore, rilevando come la scelta di privilegiare il pagamento dei lavoratori, al fine di consentire la prosecuzione delle attività di impresa, non esclude il dolo generico richiesto per la configurabilità della fattispecie incriminatrice.
L’omesso versamento dell’IVA, determinato dal mancato incasso per inadempimento contrattuale, infatti, non esclude la sussistenza del dolo richiesto dall’art. 10-ter d.lgs. 74/2000, atteso che «l’obbligo del predetto versamento prescinde dall’effettiva riscossione delle relative somme e che il mancato adempimento del debitore è riconducibile all’ordinario rischio di impresa, evitabile anche con il ricorso alle procedure di storno dai ricavi dei corrispettivi non riscossi» (cfr. Cass. pen., Sez. III, 19 maggio 2022, n. 27202; Cass. pen., Sez. III, 24 settembre 2019, n. 6506; Cass. pen., Sez. III, 23 gennaio 2018, n. 6220; Cass. pen., Sez. III, 6 marzo 2013, n. 19099).
L’omesso versamento dell’IVA, inoltre, non può essere giustificato, neppure ai sensi dell’art. 51 c.p., dal pagamento degli stipendi dei lavoratori dipendenti, posto che «l’ordine di preferenza in tema di crediti prededucibili, che impone l’adempimento prioritario dei crediti da lavoro dipendente (art. 2777 cod. civ.) rispetto ai crediti erariali (art. 2778 c.c.), vige nel solo ambito delle procedure esecutive e fallimentari e non può essere richiamato in contesti diversi, ove non opera il principio della “par condicio creditorum”, al fine di escludere l’elemento soggettivo del reato» (cfr. Cass. pen, Sez. III, 6 luglio 2018, n. 52971).
Sul punto, la Corte ribadisce che la consapevole scelta di non adempiere al pagamento dell’IVA per garantire la prosecuzione dell’attività e la salvaguardia dell’occupazione costituisce prova del dolo, non escludibile dai motivi che hanno indotto l’agente a delinquere[1].
D’altronde, appare granitico l’orientamento di legittimità che, in tema di omesso versamento dell’IVA, limita il riconoscimento della forza maggiore ai soli casi in cui essa derivi da fatti non imputabili all’ imprenditore, che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggano al suo dominio finalistico.
Generica, poi, è apparsa la richiesta di applicazione della nuova clausola di esclusione della punibilità di cui all’art. 13, comma 3-bis, d.lgs. 74/2000[2].
La nuova disposizione – che in quanto norma più favorevole trova applicazione retroattivamente – opera al ricorrere di due condizioni: (i) l’omesso versamento deve dipendere da cause non imputabili all’autore del reato; (ii) tali cause devono essere sopravvenute all’effettuazione delle ritenute certificate o all’incasso dell’imposta sul valore aggiunto. Il legislatore, inoltre, individua espressamente, quale causa tipizzata e non imputabile all’imprenditore, la crisi di liquidità non transitoria determinata da: a) l’inesigibilità dei crediti per accertata insolvenza o sovraindebitamento di terzi; b) il mancato pagamento di crediti certi ed esigibili da parte di amministrazioni pubbliche; c) la non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi.
In materia, tuttavia, la giurisprudenza appare unanime nel ritenere che la clausola in esame non trovi applicazione nei casi di mancato incasso dell’IVA, bensì quando il pagamento sia effettivamente intervenuto ma la provvista non sia stata accantonata e destinata al versamento erariale. Ne consegue che tanto le cause generatrici della crisi di liquidità, quanto la crisi stessa, devono manifestarsi in un momento successivo rispetto l’avvenuto incasso dell’imposta sul valore aggiunto. Pertanto, una crisi preesistente all’insorgenza dell’obbligo tributario ostacola l’operatività della disposizione in esame.
Del resto, è la stessa ratio della clausola a suggerire una soluzione di siffatto genere, nella misura in cui «si ritiene non punibile il solo imprenditore che si sia trovato dinanzi ad una crisi di liquidità successiva, dovendo diversamente ritenersi che il pregresso inadempimento dei debitori – rispetto all’ incasso dell’IVA – sia invece riconducibile all’ordinario rischio di impresa e debba essere “gestito” dall’imprenditore».
Ed ancora, quanto agli oneri probatori, richiamando la consolidata giurisprudenza in materia di forza maggiore[3], è stato ribadito che l’imputato che invochi la nuova causa di non punibilità dovrà dimostrare che la crisi di liquidità sia stata determinata da cause a lui non imputabili, che tali cause siano sopravvenute all’incasso dell’imposta, che la crisi sia insorta successivamente e, infine, che quest’ultima non rivesta carattere meramente transitorio. Difatti, «l’onere di allegazione gravante sull’imputato opera in relazione ai presupposti fattuali della esimente che rientrino nella sfera personale di conoscenza del medesimo, venendo meno ove le circostanze conosciute o conoscibili “ex actis” consentano al giudice di svolgere anche autonomamente il relativo apprezzamento» (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 20 giugno 2024, n. 27411).
Nel caso in esame, per contro, l’invocazione della causa di esclusione della punibilità si appalesa del tutto generica, in quanto priva di qualsivoglia prova specifica a supporto degli elementi richiesti per la sua operatività. Anzi, le condotte di omesso versamento di IVA relative all’annualità 2015, per le quali si invoca il riconoscimento della causa di non punibilità, appaiono del tutto sovrapponibili a quelle accertate per l’anno di imposta 2014 (cristallizzate nel capo 3, lett. a, già dichiarato prescritto) e, dunque, indicative della preesistenza della crisi di liquidità.
Nel concludere, dunque, per l’inammissibilità del motivo di ricorso, la Suprema Corte afferma i seguenti principi di diritto:
- «la causa di non punibilità prevista dall’art. 1, lett. f), n. 3) del d.lgs. del 14 giugno 2024 n. 87, che ha aggiunto il nuovo comma 3-bis all’art. 13 d.lgs. n. 74 del 2000, trattandosi di causa di non punibilità introdotta con vigenza dal 29 giugno 2024 al 1 gennaio 2026, in ragione della abrogazione ad opera dell’art. 101, comma 1, lett. cc) del d.lgs. 5 novembre 2024, n. 173, trova applicazione, in quanto norma più favorevole, retroattivamente, vertendosi in tema di norma sostanziale, ex art. 2, comma 4, c.p.»;
- «è onere dell’ interessato indicare gli specifici elementi e le circostanze dai quali poter desumere che la sopravvenuta e non transitoria crisi di liquidità sia determinata da cause non imputabili all’ imputato, specificando quali siano le stesse, nonché comprovandone la posteriorità all’incasso dell’IVA e all’effettuazione delle ritenute certificate».
Con riferimento, invece, al secondo motivo di doglianza, il Giudice di legittimità osserva come, in verità, la Corte territoriale abbia fatto buon governo del consolidato principio di diritto secondo cui, in tema di bancarotta preferenziale, l’elemento soggettivo del reato è costituito dal dolo specifico, «consistente nella volontà di recare un vantaggio al creditore soddisfatto, con l’accettazione della eventualità di un danno per gli altri secondo lo schema del dolo eventuale; ne consegue che tale finalità non è ravvisabile allorché il pagamento sia volto, in via esclusiva o prevalente, alla salvaguardia della attività sociale o imprenditoriale ed il risultato di evitare il fallimento possa ritenersi più che ragionevolmente perseguibile»(cfr. Cass. pen., Sez. V, 5 giugno 2018, n. 54465; Cass. pen., Sez. V, 2 febbraio 2024, n. 4814).
Nel caso in esame, al contrario, sebbene l’insolvenza fosse già conclamata e il patrimonio netto risultasse negativo fin dal 2014, «l’imprenditore aveva proseguito l’attività di impresa, finanziandosi con l’evasione fiscale e previdenziale». Elementi, questi, che hanno indotto la Suprema Corte a concludere per la manifesta infondatezza del motivo.
Infine, con riferimento alla dedotta maturazione del termine prescrizionale per i reati di cui ai capi 3, lett. b, e 4, la Corte rileva che, pur essendo decorso il termine in pendenza del giudizio di legittimità, l’inammissibilità del ricorso preclude la formazione di un valido rapporto processuale, impedendo così la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione ai sensi dell’art. 129 c.p.p.[4]
Conclusioni
La Suprema Corte di Cassazione, alla luce delle argomentazioni supra esposte, ha dichiarato l’inammissibilità dell’impugnazione proposta e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
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[1] Concetto, questo, che la Suprema Corte, in occasione della sentenza Cass. pen., Sez. III, 24 giugno 2014, n. 8352, ha condensato nella formula «la scelta di non pagare prova il dolo; i motivi della scelta non lo escludono».
[2] Il testo del su menzionato comma 3-bis prevede espressamente che «I reati di cui agli articoli 10-bis e 10-ter non sono punibili se il fatto dipende da cause non imputabili all’autore sopravvenute, rispettivamente, all’effettuazione delle ritenute o all’incasso dell’imposta sul valore aggiunto. Ai fini di cui al primo periodo, il giudice tiene conto della crisi non transitoria di liquidità dell’autore dovuta alla inesigibilità dei crediti per accertata insolvenza o sovraindebitamento di terzi o al mancato pagamento di crediti certi ed esigibili da parte di amministrazioni pubbliche e della non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi»
[3] Tra tutte, si veda Cass. pen., Sez. III, 24 giugno 2014, n. 8352; Cass. pen., Sez. III, 24 giugno 2014, n. 40795; Cass. pen., Sez. III, 8 gennaio 2014, n. 15416; Cass. pen., Sez. III,5 dicembre 2013, n. 5467; Cass. pen., Sez. III, 20 gennaio 2016, n. 2221.
[4] È stato richiamato, in particolare, il principio di diritto statuito in Cass. pen., Sez. Un., 22 novembre 2000, n. 32, secondo cui «l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p.». La valenza di detto principio di diritto è stata confermata dal Supremo Consesso anche in occasioni successive: Cass. pen., Sez. Un., 27 giugno 2001, n. 33542; Cass. pen., Sez. Un., 17 dicembre 2015, n. 12602; Cass. pen., Sez. Un., 27 maggio 2016 n. 6903.