SOMMARIO: 1. Massima. 2. Il fatto. 3. La decisione. 4. Conclusioni.
Massima
In materia di deindicizzazione da un motore di ricerca di notizie afferenti a una pregressa vicenda giudiziaria, il diritto all’oblio non gode di una tutela incondizionata da parte dell’ordinamento, giacché deve essere necessariamente bilanciato con ulteriori interessi, tra cui spicca il diritto all’informazione nel legittimo esercizio del diritto di cronaca. Sicché, nell’ambito della fattispecie concreta, è rimesso al giudice di merito un complesso giudizio di bilanciamento, in cui assume preminente rilievo la notorietà anche non nazionale dell’interessato, il suo coinvolgimento nella vita pubblica, l’oggetto della notizia, il tempo trascorso. A tal proposito, la valutazione del giudice di merito è censurabile in cassazione ove i motivi di doglianza, lungi dall’investire l’accertamento del fatto nella sua materialità storica, riguardino la correttezza del metodo seguito e il rispetto dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità.
Il fatto
Il Tribunale di M., rigettando il ricorso ex art. 79 del Regolamento sulla protezione dei dati (Regolamento UE del 27 aprile 2016, n. 679) presentato dall’istante al fine di sentir accertare e dichiarare l’illegittimità della condotta posta in essere da G. per aver trattato e memorizzato dati personali su un certo numero di URL, nonché ottenere la rimozione degli stessi dai motori di ricerca, in quanto riferiti a un’accusa di appartenenza a un’associazione di stampo mafioso da cui era stato poi assolto con sentenza definitiva, riteneva insussistenti i presupposti del riconoscimento del diritto all’oblio, in specie del diritto alla deindicizzazione.
In particolare, il ricorrente aveva lamentato come il permanente richiamo, attraverso la digitazione del proprio nome su G., a una accusa risalente al 2011 attraverso contenuti che davano atto della sussistenza di rapporti personali, di amicizia e di interesse con soggetti affiliati a un determinato clan della ‘ndrangheta nonché a operazioni imprenditoriali legate ad affari immobiliari per Expo 2015, non solo non fosse più attuale nel 2022 ma altresì non corrispondesse a verità, data l’intervenuta assoluzione con sentenza definitiva ottenuta nel 2015 e il suo ruolo non pubblico o socialmente rilevante, in quanto mero agente immobiliare iscritto all’albo.
Emergeva, in tal senso, la pretesa del ricorrente a che l’informazione pubblicata sul sito web venisse corretta ed aggiornata, così da restituire un quadro rispettoso dell’identità personale del soggetto e da non ledere l’interesse pubblico a essere correttamente informati e a conoscere la verità dei fatti rappresentati.
Di diverso avviso la difesa della resistente G. che, chiedendo il rigetto del ricorso, rilevava come il contenuto degli URL contestati fosse esatto, in quanto in difetto di prove della sua appartenenza alla ‘ndrangheta, egli era stato comunque condannato per il reato di usura aggravata in concorso con un esponente della famiglia ‘ndranghetista.
I giudici di primo grado, ritenuto pacifico che l’ordinamento non offre una tutela incondizionata al diritto all’oblio, dovendo questo essere necessariamente bilanciato con altri interessi, fra cui rientra il diritto alla informazione nel legittimo esercizio del diritto di cronaca giudiziaria quale declinazione del diritto di cui all’art. 21 Cost., osservavano come, nel caso di specie, per la tipologia del fatto di reato commesso nonché per il ruolo ricoperto nel campo dell’attività anche politica (candidato non eletto nelle elezioni amministrative locali) e del settore immobiliare, dovesse prevalere l’interesse pubblico della collettività ad essere resa edotta sull’intera vicenda giudiziaria coinvolgente il ricorrente.
Più nel dettaglio, rilevavano che la sentenza assolutoria della Corte di cassazione, lungi dall’affermare la totale estraneità del ricorrente alla famiglia del clan, ne escludeva solo la qualifica di associato, confermando la vicinanza del ricorrente all’esponente della stessa con cui aveva commesso tre episodi di usura, per i quali il ricorrente aveva ricevuto condanna.
Avverso la pronuncia del Tribunale, il difensore del ricorrente proponeva ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi d’impugnazione.
Con il primo motivo, il legale del ricorrente denunciava la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2 del d.lgs. 196/2003, degli artt. 5, 6, 7, 10, 12, 17, 23 e 32 del Reg. UE n. 679/2016, dell’art. 2 Cost. per non avere il Tribunale correttamente bilanciato gli interessi in gioco e per non aver correttamente valutato il fattore tempo, in particolare per aver errato nel considerare solo la data della sentenza e non anche l’epoca dei fatti.
Quanto al secondo motivo, il ricorrente affermava la violazione e la falsa applicazione delle Linee guida n. 5/2019, dell’art. 2 del d.lgs. 196/2003 e dell’art. 7 del Reg. n. 679/2016, sostenendo che il Tribunale aveva omesso di valutare l’esattezza della notizia pubblicata e conservata in rete.
Con il terzo e il quarto motivo censurava l’omessa ed apparente motivazione nonché l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, quali la sentenza di assoluzione per il reato di associazione mafiosa emessa dalla Corte di cassazione nel 2015 e la mancanza di un interesse collettivo a conoscere la vicenda processuale.
Con il quinto motivo, lamentava la violazione e falsa applicazione degli artt. 1176, 1218 e 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c. in tema di riparto dell’onere della prova.
Resisteva con controricorso G., eccependo in via preliminare l’inammissibilità del ricorso in quanto espressione di un tentativo di rimettere in discussione la valutazione compiuta dal Tribunale circa l’accertamento del fatto nella sua materialità storica.
La decisione
La Corte di cassazione, esaminati congiuntamente i motivi addotti per ragioni di stretta connessione, ha ritenuto fondato il ricorso nei termini e nei limiti di seguito precisati.
In primis, i Supremi giudici hanno disatteso l’eccezione preliminare sollevata dal controricorrente, in quanto è ammesso il sindacato di legittimità in ordine alla valutazione circa la correttezza del metodo adoperato dal giudice di merito, in termini di rispetto dei criteri di ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza e pertinenza, nell’operazione di bilanciamento coinvolgente, da un lato, il diritto fondamentale del ricorrente al controllo dell’insieme delle informazioni che definiscono la propria immagine sociale (la c.d. autodeterminazione informativa) – allo scopo di evitare che notizie potenzialmente diffamatorie e non più attuali e pertinenti incidano negativamente sulla reputazione personale – e, dall’altro, il diritto di cronaca giudiziaria.
Dopo aver riportato parte dei contenuti delle notizie presenti nei quattro link in contestazione, la Suprema Corte richiama i principi generali della disciplina sulla protezione dei dati personali, in particolare due diverse declinazioni del diritto all’oblio.
Secondo un’originaria accezione, il diritto all’oblio coincide con la pretesa a impedire la ripubblicazione di notizie dopo che sia decorso un significativo lasso temporale, a tutela dell’identità dinamica del soggetto e dei “tradizionali” diritti della personalità, quali la riservatezza, l’identità personale, l’onore e la reputazione.
Emerge in questo caso il ruolo ricoperto dal “fattore tempo”, ovvero dal lasso temporale intercorrente tra le due pubblicazioni, tale per cui la pretesa all’oblio, nell’ambito del bilanciamento con gli altri diritti, tendenzialmente prevale, salvo sussistano un interesse pubblico effettivo e attuale alla conoscibilità della notizia e un elevato grado di notorietà del soggetto protagonista della vicenda, vengano impiegate modalità improntate alla verità ed, infine, ne venga data preventiva informazione circa la ripubblicazione al soggetto affinché possa esercitare il diritto di replica (cfr. Cass., Prima Sezione n. 6919/2018; Sezioni Unite n. 19681/2019).
Secondo una diversa e più evoluta declinazione di privacy informatica, il diritto all’oblio coinciderebbe con la pretesa alla deindicizzazione dei dati personali visibili nell’elenco dei risultati di ricerca disponibili on line, ove la permanenza della notizia senza necessità di essere riproposta determina la sua persistente accessibilità da parte degli utenti, fotografando quindi una realtà non più esistente.
In questa prospettiva, sul presupposto che il diritto all’oblio è una figura di creazione dottrinale e giurisprudenziale recente, la Corte riporta una rassegna di pronunce che evidenziano i principi ormai ritenuti pacifici in materia:
- sussiste il diritto dell’interessato, ai sensi degli artt. 7 e 8 della Carta di Nizza, a chiedere che l’informazione contestata non venga più messa a disposizione del grande pubblico mediante l’inclusione di un elenco accessibile tramite internet, dovendo le prerogative personali prevalere sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca e sull’interesse dei cittadini a conoscere ogni possibile informazione (Corte di Giustizia UE, 13 maggio 2014, C-131/12 Caso Google Spain: nel caso di specie, googlando il nome di una persona emergeva che tale aveva ricevuto un pignoramento effettuato dalla riscossione coattiva di crediti previdenziali);
 - la presenza nell’archivio storico on line di un quotidiano, di articoli di cronaca giudiziaria pubblicati anni prima nell’edizione cartacea dello stesso giornale, riguardanti fatti penalmente rilevanti e su cui insiste un interesse pubblico di tipo storico o socio-economico, facente capo ad una persona nelle more deceduta, è giustificata dalla permanenza dell’interesse della collettività, e in particolare del mondo economico, di “fare memoria” di tali vicende, se l’editore ha provveduto alla “deindicizzazione”, allo spontaneo aggiornamento degli articoli in questione, e alla reperibilità da parte della collettività solo attraverso l’archivio informatico, così da garantire un giusto bilanciamento tra il diritto all’oblio e il diritto della collettività ad essere informata correttamente sulle relative vicende (, Sez. I, 27 marzo 2020, n. 7559: nel caso di specie, la Corte confermava la sentenza di merito che aveva respinto la domanda degli eredi di un imprenditore deceduto con cui era stata chiesta la cancellazione dall’archivio informatico di una notizia che riportava le vicende giudiziarie penalmente rilevanti relative al defunto);
 - la “deindicizzazione” dell’articolo dai motori di ricerca può porsi come ragionevole soluzione al bilanciamento tra la tutela del diritto all’oblio e l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto, quest’ultimo posto a garanzia della libertà di manifestazione del pensiero, di cronaca e di conservazione storico-sociale e documentarista (, Sez. I, 19 maggio 2020, n. 9147);
 - sussiste il diritto di un imprenditore, noto esclusivamente a livello locale, a chiedere la deindicizzazione, in relazione a pagine web contenenti articoli giornalistici, seppur non troppo risalenti nel tempo, nei quali venga riportato il contenuto di intercettazioni telefoniche di terzi che riferiscono di una presunta vicinanza dell’attore alla ‘ndrangheta, mai confermate da alcuna indagine nei suoi confronti ( Sez. I, 31 maggio 2021, n. 15160);
 - al fine di bilanciare concretamente l’immagine sociale dell’individuo e l’interesse pubblico all’informazione, è lecita la permanenza di un articolo di stampa, a suo tempo legittimamente pubblicato, nell’archivio informatico di un quotidiano, che riguardi fatti risalenti nel tempo oggetto di una inchiesta giudiziaria poi sfociata nell’assoluzione dell’imputato, purché, a richiesta dell’interessato, l’articolo sia deindicizzato e reperibile solo attraverso l’archivio storico del quotidiano, e purché, a richiesta documentata dell’interessato, all’articolo sia apposta una sintetica nota informativa, a margine o in calce, che dia conto dell’esito finale del procedimento giudiziario in forza di provvedimenti passati in giudicato (, Sez. I, 27 dicembre 2023, n. 2893);
 - l’omesso aggiornamento di una risalente notizia di cronaca, pubblicata sul sito internet di una testata giornalistica, integra un trattamento illecito dei dati personali, suscettibile di dar luogo a un pregiudizio non patrimoniale risarcibile, nel caso di ingiustificato rifiuto o ritardo del titolare del sito di provvedere al suddetto aggiornamento o alla rimozione della notizia, a seguito della corrispondente richiesta dell’interessato (, Sez. III, 1° marzo 2023, n. 6116);
 - anche nel sistema antecedente all’entrata in vigore del Reg. UE n. 679/2016 (GDPR) occorre la richiesta dell’inte-ressato per la cancellazione, deindicizzazione o aggiornamento di un articolo di stampa a suo tempo legittimamente pubblicato, non sussistendo, in mancanza di detta istanza, alcun obbligo in capo al gestore del sito web (, Sez. I, 7 marzo 2023, n. 6806).
 
Tanto premesso, la Corte ha osservato come, nel caso di specie, il Tribunale abbia correttamente ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale in materia (art. 17 Reg. Ue n. 679/2016; art. 21 Cost., Corte di Giustizia, 13 maggio 2014, causa C-131/12 Costeja; Corte Cost. n. 85/2013; Cass., Sez. Unite n. 19681/2019; Linee Guida del Garante europeo per la protezione dei dati personali n. 5/2019), individuando l’esigenza di sottoporre a bilanciamento la tutela dei dati personali e l’interesse collettivo all’informazione nelle controversie in cui si invoca il diritto all’oblio.
Tuttavia, secondo i Supremi giudici, il Tribunale ha errato nell’effettuare in concreto il bilanciamento tra i diritti coinvolti, al punto da compromettere la tenuta complessiva della sentenza.
In tal senso, il Tribunale ha trascurato il principio di autodeterminazione informativa, avendo omesso di considerare che l’accusa di mafia era stata smentita da una sentenza irrevocabile; che gli articoli in contestazione non si riferivano in alcun modo agli episodi di usura per i quali era intervenuta diversa condanna per il ricorrente; che, quindi, gli articoli non erano aggiornati con l’evoluzione processuale; che il fattore tempo (oltre 12 anni dalla commissione dei fatti) non era stato valutato correttamente, avendo il Tribunale considerato come dies a quo solo la data di pubblicazione della sentenza di assoluzione del ricorrente; che, in conclusione, le notizie erano diffamatorie e non più pertinenti, incidendo sull’identità personale e la reputazione del ricorrente.
Infine, il Supremo Consesso ha confermato la sentenza impugnata sotto il profilo della censura avanzata dal ricorrente in ordine alla ritenuta sussistenza della qualità di personaggio pubblico, ricordando come affinché un soggetto possa ritenersi “noto” non occorre che tale notorietà abbia carattere nazionale.
Conclusioni
La Corte ha accolto il ricorso, nei sensi di cui in motivazione, e ha cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa, anche per le spese di giudizio di cassazione, al Tribunale, in persona di diverso magistrato.
Ebbene, la pronuncia ha il merito di esaltare il fattore temporale, la non attualità dell’interesse collettivo e la rilevanza della posizione pubblica del soggetto coinvolto. Tre elementi costitutivi del diritto all’oblio, inteso come diritto a dimenticare ciò che è accaduto in passato e a evitare la reperibilità di una serie illimitata e incontrollata di informazioni lesive della propria immagine in Rete.
Non v ’è dubbio che i rapporti tra riservatezza e cronaca giudiziaria debbano quindi trovare diversa composizione in base alle coordinate tracciate, richiedendo all’interprete una sapiente opera di bilanciamento per evitare che l’uno soccomba sistematicamente all’altro o viceversa.




