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Cass. Pen., sez. V, ud. 14 febbraio 2024 (dep. 7 maggio 2024), n. 17965

- 1 Agosto 2024

SOMMARIO: 1. Massima. 2. Svolgimento del processo. 3. Motivi della decisione. 4. Dispositivo.

Massima

In tema di istigazione o aiuto al suicidio, la fattispecie di cui all’art. 580 c.p. rappresenta una fattispecie plurisoggettiva necessaria impropria rispetto alla quale la partecipazione morale o materiale all’ideazione od esecuzione dell’altrui proposito suicidario, per risultare tipica, deve assumere un’oggettiva efficienza nella causazione dell’evento del reato e deve presentare un intrinseco finalismo orientato all’esito finale sì da non rappresentare, piuttosto, la generica manifestazione delle astratte opinioni dell’imputato sul fine vita.

Svolgimento del processo 

La Corte d’Assise d’appello, con la sentenza impugnata, riformando la pronuncia assolutoria perché il fatto non sussiste emessa dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale a seguito di giudizio abbreviato, in accoglimento dell’appello del Pubblico ministero, condannava, anche agli effetti civili, l’imputato per il reato di istigazione al suicidio ex art. 580 c.p. In particolare, i fatti riguardavano il c.d. suicidio assistito della persona offesa, realizzatosi in una clinica svizzera nel corso del marzo 2019. La medesima, invero, si era determinata a sottoporsi a trattamenti medici che ponessero fine allo stato di prostrazione fisica e psichica in cui versava a causa di provanti disturbi causati da sindrome stiloidea o di Eagle che, conseguentemente, l’avevano portata a manifestare diverse forme depressive. L’imputato, a tal riguardo, veniva, alcuni anni addietro, contattato dalla persona offesa al fine di intrattenere eterogenei colloqui informativi sulla possibilità di sottoporsi a trattamenti di suicidio assistito in Svizzera e ciò in quanto l’odierno imputato era presidente di un’associazione impegnata nella promozione e divulgazione culturale delle pratiche di eutanasia legale, in accordo con un’associazione svizzera presso la cui clinica la persona offesa avrebbe poi, effettivamente, portato a compimento i suoi propositi suicidari. I contatti tra i due soggetti si dispiegavano nel corso degli anni 2017 e 2018, a mezzo posta elettronica e conversazioni telefoniche, pubblicate dallo stesso imputato sul bollettino dell’associazione da lui presieduta, come successivamente confermate nell’interrogatorio reso dallo stesso nel corso delle indagini preliminari e documentate da un compendio probatorio arricchito dagli esiti emersi dall’analisi dei tabulati delle rispettive utenze.

Sulla base di tali elementi, la Corte territoriale concludeva, in riforma, che l’imputato avesse di fatto rafforzato il proposito suicidario manifestato dalla persona offesa, così realizzando la condotta tipizzata dall’art. 580 c.p., altresì ritenendo che le risultanze probatorie e dibattimentali deponessero a favore del pregio della considerazione per la quale il profondo stato di prostrazione psico-fisica della medesima l’avesse resa oltremodo vulnerabile ed esposta all’influenza delle sollecitazioni dell’imputato, queste ultime tese a persuaderla della ragionevolezza della scelta di accedere alle pratiche di suicidio assistito.

In ragione di ciò, l’imputato, per il tramite dei suoi due difensori, proponeva ricorso affidando le proprie censure a molteplici motivi, che si sintetizzano a seguire soltanto con riferimento agli aspetti più significativi della decisione della Corte:

si lamentava la violazione di legge e di motivazione con riguardo all’ordinanza dd. 24.10.2022 con cui la Corte disponeva la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, altresì lamentando l’omessa esplicitazione delle ragioni sottese alla ritenuta necessità di procedere alla rinnovazione;

si deducevano analoghi vizi in relazione alla mancata rinnovazione dell’esame dell’imputato nonostante la riforma della pronuncia di assoluzione di primo grado si fondasse essenzialmente sul resoconto pubblicato dall’imputato sul bollettino della propria associazione e nonostante lo stesso avesse, nel corso dell’interrogatorio, escluso in radice di aver in alcun modo influenzato la persona offesa in merito alla scelta di accedere alle pratiche di suicidio assistito;

si lamentava l’erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione con riferimento all’affermazione della responsabilità dell’imputato, avendo la Corte territoriale omesso il confronto con lo sviluppo argomentativo effettuato dal giudice di prime cure e l’esplicitazione delle ragioni sottese alla ritenuta maggior persuasività della propria ricostruzione del significato del compendio probatorio di riferimento. Altresì, lamentava che i giudici di secondo grado avessero indebitamento detratto pregio alla considerazione per la quale la persona offesa avesse perseguito il proprio proposito suicidario con determinazione, trascurando con lucida motivazione le sollecitazioni di segno contrario delle persone a lei più vicine e dimostrando, al contrario, di non essere in alcun modo influenzabile da terzi. Infine, la motivazione risultava viziata da genericità e lacunosità in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, vale a dire il dolo, la cui struttura avrebbe richiesto non solo la consapevolezza di rafforzare con la propria condotta l’altrui proposito suicida bensì anche la prova di quello specifico, consistente nel fine che il suicidio avvenisse;

si lamentava il vizio di erronea applicazione della legge penale e di motivazione relativi all’affermata responsabilità penale dell’imputato, atteso che non sarebbe apparso possibile – sulla base delle dichiarazioni dei consulenti esaminati in dibattimento – ritenere sufficientemente provata la condizione di vulnerabilità e influenzabilità in cui versava la vittima, condizioni peraltro non richieste dall’art. 580 c.p.

Motivi della decisione

(…)

La Suprema Corte ha così compendiato gli esiti del ricorso, di cui si riportano solamente i passaggi significativi con riferimento alle questioni di diritto di maggior interesse scientifico ed ermeneutico:

– con riferimento alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale prevista dall’art. 603 co. 3 c.p.p., il Giudice di legittimità ha ritenuto i motivi di ricorso infondati, sottolineando come tale potere officioso fosse riconosciuto parimenti nel giudizio di appello conseguente allo svolgimento di quello di primo grado, sia pur nelle forme del rito abbreviato. La motivazione del giudice, invero, riferibile alla constatazione di non poter procedere allo stato degli atti senza la richiesta di integrazione probatoria, è chiamata a tradursi nell’enunciazione di un contenuto descrittivo meramente ricognitivo della situazione di stallo probatorio in cui versa il giudizio e non “in una sorta di anticipazione del giudizio finale”, senza dimenticare che l’acquisizione di una nuova prova in appello, ancorché in assenza di una necessità di integrazione particolarmente pregnante, non determina inutilizzabilità della stessa;

– con riferimento alla mancata audizione dell’imputato nel giudizio di appello, il motivo di ricorso è stato parimenti ritenuto privo di pregio dalla Suprema Corte in quanto dimentico delle modifiche sopravvenute in seguito al d.lgs. 150/2022 (c.d. riforma Cartabia): invero, tale intervento sul tessuto normativo ha espressamente circoscritto l’obbligo di rinnovazione alle prove dichiarative assunte nel corso del dibattimento di primo grado o a seguito di integrazione probatoria disposta ai sensi degli artt. 438 comma 5 e 441 comma 5 c.p.p., di fatto escludendo in radice la possibilità per il giudice di appello, che intendesse riformare la sentenza di assoluzione di primo grado pronunciata a seguito di abbreviato, di assumere l’esame dell’imputato qualora quest’ultimo avesse reso dichiarazioni soltanto nel corso delle indagini preliminari. Parimenti, il Supremo Consesso non ha ritenuto valorizzabile il rilievo che la modifica normativa fosse entrata in vigore solo in epoca succedanea all’impugnazione della sentenza di primo grado, sul presupposto che l’ampia giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite (nr. 27614 del 29/03/2017, Lista, Rv. 236537) ha, in più occasioni, a chiare lettere stabilito che, ai fini dell’individuazione del regime applicabile in assenza di previsioni transitorie, debba farsi riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non già a quello della proposizione dell’impugnazione;

– nel caso di ribaltamento della condanna, l’onere di confutazione della sentenza impugnata si traduce in quello di “giustificare i motivi per cui le ragioni del primo giudice non consentono di escludere ricostruzioni alternative del fatto, sulla scorta di un’operazione di tipo essenzialmente demolitivo”, fermo restando che tali ricostruzioni alternative non debbono apparire solo ipotizzabili in astratto bensì in concreto, sicché il giudice d’appello ha l’onere di motivare le ragioni che l’hanno indotto a ritenere preferibile la propria valutazione probatoria rispetto a quella coltivata nel provvedimento impugnato, confrontandosi “con la regola di giudizio che presiede all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato”. Appaiono, perciò, fondati i rilievi difensivi inerenti al difetto di motivazione rafforzata della sentenza impugnata, essendosi limitato il giudice dell’appello ad accantonare il percorso argomentativo seguito dal G.U.P. del Tribunale e a contrapporre allo stesso la propria personale valutazione del compendio probatorio in assenza di una vera e propria rivisitazione critica delle ragioni che l’hanno indotto a ritenere la sentenza viziata sotto il profilo logico;

– la fattispecie di cui all’art. 580 c.p. si impone quale “fattispecie plurisoggettiva necessaria impropria”, posto che alla produzione di uno degli eventi tipizzati dalla norma incriminatrice sono chiamati a concorrere l’azione autolesiva del soggetto passivo (non punibile) e la condotta del soggetto attivo del reato, tradottasi in una sorta di istigazione, vale a dire nella determinazione o nel rafforzamento dell’altrui volontà suicida o nell’agevolazione dell’esecuzione del suicidio. In proposito, prosegue la Corte, “la condotta dell’agente, per essere tipica, deve assumere una oggettiva efficienza nella causazione dell’evento del reato, la cui produzione deve comunque materialmente rimanere affidata all’azione del soggetto passivo, configurandosi altrimenti diverse ipotesi di reato”. Invero, il suicidio si presenta quale atto volontario, compiuto personalmente per procurarsi la morte nella consapevolezza della sua natura autolesiva, sicché la condotta di partecipazione morale dell’imputato – contestata a quest’ultimo nelle forme del rafforzamento della volontà suicidaria – “rappresenta, sul piano condizionalistico, un mero antecedente necessario dell’evento, che influisce, sul piano psicologico, sulla determinazione del soggetto passivo di compiere il gesto autolesivo”. Tuttavia, affinché la condotta possa ritenersi “tipica”, appare necessario che tale condotta di partecipazione morale disveli un “intrinseco finalismo orientato all’esito finale, sussistendo altrimenti il rischio di dilatare oltremodo il perimetro oggettivo della fattispecie fino a ricomprendere qualsiasi condotta umana che abbia suscitato o rafforzato l’altrui volontà suicidaria comunque liberamente formatasi”. Per tali ragioni, la motivazione della sentenza impugnata appare inadeguata nell’individuazione nella condotta attribuibile all’imputato dei caratteri tipici della contestata fattispecie. A tal proposito, la Corte prosegue precisando che, essendosi nel caso di specie in presenza di un dialogo con finalità informative e precipuamente divulgative, il giudice d’appello avrebbe dovuto “innanzitutto spiegare in che termini le stesse debbano ritenersi specificamente orientate a rafforzare la volontà dell’interessata di accedere al suicidio […] e non rappresentino piuttosto la generica manifestazione delle astratte opinioni dell’imputato sul fine vita”;

– sul versante dell’elemento psicologico, conclude il Giudice di legittimità, la Corte d’appello avrebbe dovuto evidenziare le ragioni per cui l’imputato non avesse potuto agire eventualmente solo in maniera imprudente o, laddove avesse ritenuto integrato il dolo benché nella sua dimensione di eventualità, se e per quale motivo potesse ritenersi che l’imputato si fosse chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e, nonostante ciò, si fosse determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo.

(…)

Dispositivo

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Assise di appello.

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