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I confini operativi dell’overruling: quando il mutamento interpretativo può giustificare la proposizione di un motivo nuovo di appello? – Cass. Pen., sez. III, 20 giugno 2025, n. 23110

- 11 Settembre 2025

SOMMARIO: 1. Massima. 2. Il fatto. 3. La decisione. 4. Conclusioni.

Massima

In tema di motivi nuovi di appello, ai sensi dell’art. 585, comma IV, c.p.p., il mutamento giurisprudenziale può giustificare la proposizione di censure sopravvenute solo qualora presenti i caratteri dell’assoluta imprevedibilità e inconciliabilità con le precedenti decisioni. Al contrario, non costituisce overruling imprevedibile, rilevante ai fini dell’ammissibilità del motivo nuovo, il mutamento interpretativo in materia sostanziale qualora esso si collochi nel solco di un orientamento già presente, ancorché minoritario.

Il fatto 

Con la sentenza impugnata, la Corte di Appello, in parziale riforma della pronuncia resa dal Giudice di prime cure, assolveva l’imputato per il reato di riciclaggio ex art. 648-bis c.p., confermando, invece, l’affermazione di responsabilità per il reato di cui all’artt. 48 c.p. e 2 d.lgs. 74/2000.

Avverso tale decisione veniva proposto ricorso per Cassazione, articolato in un unico motivo di doglianza, con il quale si deduceva la violazione dell’art. 585, comma IV, c.p.p. nonché il vizio di motivazione.

In particolare, il ricorrente lamentava l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nel dichiarare inammissibile un motivo nuovo di appello, ritenuto tardivo a causa della mancata impugnazione (in via originaria) dei capi della sentenza di primo grado relativi all’elemento soggettivo del reato richiesto dall’art. 2 d.lgs. 74/2000.

Nello specifico, si evidenziava che la proposizione della predetta doglianza fosse stata determinata dal fenomeno dell’overruling, circostanza che – a parere della difesa – ne legittimava la qualificazione come motivo nuovo, ai sensi dell’art. 585, comma IV, c.p.p., in ragione dell’imprevedibilità del mutamento giurisprudenziale intervenuto.

Nel ricorso si sottolineava, infatti, come, nonostante il dolo specifico richiesto dalla fattispecie di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000, la giurisprudenza di legittimità avesse – con un orientamento pressoché granitico – ritenuto compatibile il dolo specifico con quello eventuale, rendendo così irrilevante il perseguimento di scopi ulteriori o diversi da quello fiscale. Solo recentemente, tuttavia, con la sentenza n. 33433 del 7 luglio 2023, si sarebbe registrato un mutamento interpretativo dirompente, secondo cui la finalità esclusivamente extrafiscale della condotta escluderebbe l’elemento soggettivo del reato.

In virtù di tale overruling, il ricorrente sosteneva che il motivo proposto doveva considerarsi nuovo e ammissibile ex art. 585, comma IV, c.p.p., trattandosi di una questione sopravvenuta e imprevedibile al momento dell’impugnazione originaria. Ribadiva, infine, che, alla luce del nuovo indirizzo giurisprudenziale, difetterebbe in radice l’elemento soggettivo del reato contestato.

La decisione

La Corte di Cassazione, investita della questione, ha ritenuto il motivo di ricorso manifestamente infondato.

Nella trama motiva, anzitutto, è stata richiamata la copiosa giurisprudenza circa i limiti entro i quali deve essere valutata l’ammissibilità dei nuovi motivi di appello.

La Suprema Corte, invero, ha ricordato che i motivi nuovi devono, a pena di inammissibilità, riguardare solo i capi o i punti della decisione impugnata che sono stati già oggetto di impugnazione nei motivi originariamente proposti a norma dell’art. 581, comma I, lett. a, c.p.p. (cfr. Cass. pen., Sez. III, 20 novembre 2013, n. 18293).

«La facoltà dell’appellante di presentare motivi nuovi» – precisa il Giudice di legittimità – «incontra il limite del necessario riferimento ai motivi principali, di cui i primi devono rappresentare mero sviluppo o migliore esposizione, ma sempre ricollegabili ai capi e ai punti già dedotti, sicché sono ammissibili soltanto motivi aggiunti con i quali si alleghino ragioni di carattere giuridico diverse o ulteriori, ma non anche motivi con i quali si intenda allargare l’ambito del predetto “petitum”, introducendo censure non tempestivamente formalizzate entro i termini per l’impugnazione» (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 30 settembre 2020, n. 36206).

Sulla scorta di ciò, la Suprema Corte ha ritenuto esente da censure l’operato della Corte territoriale che aveva dichiarato inammissibile il motivo nuovo con il quale si chiedeva l’assoluzione per il reato di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000 per difetto dell’elemento soggettivo, trattandosi di punto non oggetto dell’impugnazione originaria.

Parimenti infondata è stata ritenuta altresì la deduzione difensiva secondo cui la sentenza n. 33433 del 7 luglio 2023 della Terza Sezione, pronunciata successivamente alla proposizione dell’appello originario, integrerebbe un’ ipotesi di overruling giurisprudenziale tale da consentire la proposizione di un motivo nuovo.

In tema, la Suprema Corte ha richiamato la giurisprudenza della Corte EDU, secondo cui l’art. 7 CEDU osta all’applicazione retroattiva dell’interpretazione giurisprudenziale in malam partem, laddove il risultato ermeneutico non fosse ragionevolmente prevedibile nel momento della commissione del fatto (cfr., tra tutte, Corte EDU, Grande Camera, S.W. c. Regno Unito, sent. 22 novembre 1995, ric. n. 20166/92; Corte EDU, Del Rio Prada c. Spagna,  sent. 21 ottobre 2013, ric. n. 42750/09).

In ambito nazionale, le Sezioni Unite civili della Cassazione[1] hanno affermato che il precetto fondamentale della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.) impedisce di attribuire all’interpretazione della giurisprudenza il valore di fonte del diritto, sicché essa, nella sua dimensione dichiarativa, non può rappresentare la lex temporis acti, ossia il parametro normativo immanente per la verifica di validità dell’atto compiuto in correlazione temporale con l’affermarsi dell’esegesi del giudice.

Ove, tuttavia, «l’overruling sia connotato dal carattere dell’ imprevedibilità (per aver agito in modo inopinato e repentino sul consolidato orientamento pregresso), si giustifica una scissione tra il fatto (e cioè il comportamento della parte risultante ex post non conforme alla corretta regola del processo) e l’effetto, di preclusione o decadenza, che ne dovrebbe derivare. Ne consegue che – in considerazione del bilanciamento dei valori in gioco, tra i quali assume preminenza quello del giusto processo (art. 111 Cost.), volto a tutelare l’effettività dei mezzi di azione e difesa anche attraverso la celebrazione di un giudizio che tenda, essenzialmente, alla decisione di merito – deve escludersi l’operatività della preclusione o della decadenza derivante dall’overruling nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente (e cioè non oltre il momento di oggettiva conoscibilità dell’arresto nomofilattico correttivo, da verificarsi in concreto) nella consolidata precedente interpretazione della regola stessa, la quale, sebbene soltanto sul piano fattuale, aveva comunque creato l’apparenza di una regola conforme alla legge del tempo».

Le sezioni semplici penali della Corte di Cassazione hanno,  altresì, precisato «che l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale esclude l’imprevedibilità della decisione giudiziale che adotti una delle soluzioni in contrasto, ancorché minoritaria, e correlativamente esclude l’operatività del divieto di retroattività della relativa regola giurisprudenziale» (cfr., ex pluris, Cass. pen., Sez. V, 17 maggio 2018, n. 41846; Cass. pen., Sez. V, 17 giugno 2016, n. 31648; Cass. pen., Sez. V, 12 dicembre 2018, n. 13178; Cass. pen., Sez. V, 3 marzo 2020; n. 12747).

Tali pronunce hanno correttamente chiarito che l’overruling non è invocabile quando il mutamento giurisprudenziale, pur innovativo, si innesta in un quadro interpretativo già esistente, costituendo uno sviluppo prevedibile di soluzioni note, anche se minoritarie. L’ipotesi di overruling non consentito, in quanto imprevedibile per l’imputato, ricorre solo nei casi in cui la nuova opzione ermeneutica segni una rottura radicale rispetto agli orientamenti precedenti, risultando del tutto inconciliabile con essi. In presenza di un contrasto pregresso, invece, l’esito interpretativo – sebbene non conforme all’indirizzo dominante – deve ritenersi comunque conoscibile e, dunque, non tale da giustificare l’ammissibilità di un motivo nuovo.

Affinché possa invocarsi il principio della irretroattività dell’orientamento del Giudice della nomofilachia, dunque, in deroga alla natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali, devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti:

  • che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su una regola del processo;
  • che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato del pregresso indirizzo, tale da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso;
  • che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte.

Deve, cioè, in definitiva, verificarsi un affidamento qualificato in un consolidato indirizzo interpretativo di norme processuali, come tale meritevole di tutela con il prospective overruling, situazione riconoscibile solo in presenza di stabili approdi interpretativi di legittimità, i quali assumono valore di communis opinio tra gli operatori (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 19 aprile 2023, n. 23060).

Con specifico riferimento, poi, al mutamento giurisprudenziale relativo all’interpretazione di una norma di natura sostanziale, il Giudice di legittimità ha precisato che «costituisce causa di esclusione della colpevolezza il mutamento di giurisprudenza in malam partem, nel caso in cui l’imputato, al momento del fatto, poteva fare affidamento su una regola stabilizzata, enunciata dalle Sezioni Unite, che escludeva la rilevanza penale della condotta e non vi erano segnali, concreti e specifici, che inducessero a prevedere che, in futuro, le Sezioni Unite avrebbero attribuito rilievo a quella condotta, rivedendo il precedente orientamento in senso peggiorativo» (cfr. Cass., pen., Sez. VI, 26 marzo 2024, n. 28594).

Sulla scorta di tali premesse, la Suprema Corte evidenzia come, nel caso di specie, per la natura dichiarativa degli orientamenti giurisprudenziali, il principio dell’overruling non sia applicabile in presenza di contrasto o di mutamento giurisprudenziale sull’ interpretazione di una norma sostanziale, ove già si registrino soluzioni ermeneutiche non sempre omogenee, come accaduto con riguardo alla natura del dolo richiesto dalla fattispecie di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000.

Peraltro, a scanso di equivoci, è stato messo in luce che, contrariamente da quanto dedotto dal ricorrente, la citata sentenza n. 33433 del 7 luglio 2023 non ha affermato che il perseguimento della finalità esclusivamente di tipo extrafiscale escluda l’elemento soggettivo del reato, ma ha semplicemente rilevato che, in quel caso, difettava la prova della finalità, anche solo concorrente, di natura fiscale, connotante la condotta di emissione di fatture di cui all’art. 8 d.lgs. 74/2000[2].

Conclusioni

La Suprema Corte di Cassazione, alla luce delle argomentazioni supra menzionate, ha dichiarato inammissibile il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

[1] Ci si riferisce, in particolare, a quanto statuito in Cass. civ., Sez. Un., 11 luglio 2011, n. 15144; Cass. civ., Sez. Un., 21 novembre 2011, n. 24413 Cass. civ., Sez. Un., 12 febbraio 2019, n. 4135; Cass. civ., Sez. Un., 9 novembre 2018, n. 28575.

[2] In quella occasione, invero, era stato ribadito il principio di diritto, già affermato da Cass. pen., Sez. VI, 6 aprile 2011, n. 16465, secondo cui «in tema di dolo, la prova della volontà della commissione del reato è prevalentemente affidata, in mancanza di confessione, alla ricerca delle concrete circostanze che abbiano connotato l’azione e delle quali deve essere verificata la oggettiva idoneità a cagionare l’evento in base ad elementi di sicuro valore sintomatico, valutati sia singolarmente sia nella loro coordinazione. La prova del dolo si ricava essenzialmente dagli elementi obiettivi del fatto, dalle concrete manifestazioni della condotta. […] Dunque, contrariamente a quanto si afferma nel ricorso con cui si è articolato unicamente il vizio di violazione di legge, la Corte di appello ha correttamente interpretato la norma spiegando perché sia mancata la prova della necessaria finalità, anche solo concorrente, di natura fiscale, connotante la condotta di emissione di fatture di cui all’art. 8 D. Lgs. 74/2000».

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