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In tema di maltrattamenti in famiglia deve porsi la distinzione tra convivenza e condivisione della abitazione – Cass. Pen. Sez. VI (ud. 18 marzo 2025 – dep. Il 12.05.2025), n. 17857

- 18 Settembre 2025

SOMMARIO: 1. Massima. 2. Il fatto. 3. La decisione. 4. Conclusioni.

Massima

Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, la convivenza, quale radicata e stabile relazione affettiva interpersonale tra le parti, con la condivisione della abitazione, va distinta dalla coabitazione, sicché non viene meno per effetto di temporanee e circoscritte sospensioni di quest’ultima nei momenti di maggiore criticità, che non comportino la definitiva cessazione del vincolo relazionale.

Il fatto 

Il Tribunale di Marsala condannava alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione per il reato p. e p. dall’art. 572 cod. pen. l’imputato L. G. e, successivamente, la Corte d’Appello di Palermo, confermava la sentenza di primo grado.

In sede di gravame, l’imputato deduceva l’inattendibilità della persona offesa. Purtuttavia, la Corte d’Appello non dava seguito a tale motivo di appello ripercorrendo ritenendo il narrato della vittima puntuale e consequenziale, essendo – peraltro – totalmente sovrapponibile con le dichiarazioni di altri testimoni escussi nel corso del dibattimento, nonché dalle fotografie che la persona offesa aveva scattato in occasione dell’aggressione fisica avvenuta il 20 ottobre 2020.

La difesa dell’imputato, inoltre, chiedeva di non riconoscere la sussistenza dell’aggravante di cui al comma secondo dell’art. 572 cod. pen. Ma la Corte palermitana riteneva provato che la minore, essendo sempre in compagnia della persona offesa, aveva ripetutamente assistito alle condotte aggressive del padre, nonché, in alcune situazioni, era stata vittima ella stessa.

Infine, confermavano la condanna per il reato ex art. 572 cod. pen., mancando di riqualificare il fatto ai sensi dell’art. 612 bis cod. pen., siccome il compendio probatorio dimostrava il carattere abituale delle condotte maltrattanti.

Avverso detta sentenza l’imputato, per il tramite del proprio difensore, proponeva ricorso per Cassazione chiedendone l’annullamento.

Un primo motivo lamentava la sottovalutazione delle dichiarazioni rese dai testimoni della difesa.

Un secondo, relativo alla contestata aggravante, denunciava l’omesso accertamento dell’abitualità delle condotte e la loro idoneità a cagionare uno stato di sofferenza psicofisica nella minore. Intimamente connesso con tale deduzione, era anche la mancata valutazione del danno effettivamente patito dalla minore, avendo limitato l’indagine alla sola circostanza oggettiva della filiazione o della mera presenza della minore ai litigi fra i genitori.

Infine, lamentava l’erronea qualificazione giuridica dei fatti. Secondo l’iter logico-giuridico della difesa il comportamento di L. G. doveva essere sussunto nell’art. 612 bis cod. pen. in ragione della mancanza di stabile convivenza dovuto alla sopravvenuta cessazione del vincolo affettivo o comunque della mancanza di attualità del medesimo.

La decisione

La Sesta sezione rigettava il ricorso perché proposto per motivi estranei alla lettera dell’art. 606 cod. proc. pen., nonché perché troppo generico, ignorando l’iter motivazionale che caratterizza la sentenza impugnata.

In tal senso devono leggersi le censure relative il giudizio di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla P.O. I motivi di ricorso riproducevano un quadro di argomentazioni che venivano già vagliate in sede di merito, nonché intese a sollecitare una rivisitazione delle risultanze processuali, richiedendo una valutazione alternativa delle fonti di prova, improponibile innanzi alla Corte di Cassazione.

Infatti, confrontandosi con tale motivo, gli Ermellini evidenziavano che il racconto di N. El M. – persona offesa dal reato – veniva ampiamente vagliato dalla Corte palermitana, la quale giustificava la sua credibilità evidenziandone la sovrapponibilità con le dichiarazioni della madre e della sorella, nonché con quelle dei testi B. e T., estranei alla cerchia familiare, e della operatrice dello sportello anti-violenza B.

Inoltre, la ricostruzione concreta veniva altresì confermata dalla presenza delle fotografie attestanti lesioni compatibili con la dinamica dei fatti descritta dalla persona offesa.

Il motivo riguardante l’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 572, comma 2, cod. pen., veniva considerato generico e riproduttivo delle medesime doglianze proposte in appello.

La difesa dell’imputato, a sostegno delle proprie argomentazioni, citava l’indirizzo giurisprudenziale minoritario secondo cui per l’integrazione della circostanza è necessario che il numero, la qualità e la ricorrenza degli episodi cui il minore assiste siano tali da lasciare inferire il rischio della compromissione del suo normale sviluppo psico-fisico[1].

L’argomento era privo di pregio in quanto dal compendio probatorio emergevano plurimi episodi consumati alla presenza del minore.

Inconferente era, poi, la necessità di una consulenza atta a verificare il danno patito dalla minore per avere assistito agli episodi di maltrattamento, in quanto: «si realizza la fattispecie aggravata della c.d. “violenza assistita”, a prescindere dall’età del minorenne, purché il numero, la qualità e la ricorrenza degli episodi cui questi assiste siano tali da lasciare inferire il rischio della compromissione del suo normale sviluppo psico-fisico»[2].

Infondata, infine, era la doglianza sulla qualificazione giuridica del fatto.

In tema di rapporti fra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici impone di intendere i concetti di “famiglia” e di “convivenza” di cui all’art. 572 cod. pen. nell’accezione più ristretta, di una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza di affetti implicante reciproche aspettative di mutua solidarietà ed affetti, fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell’abitazione, ancorché non necessariamente continuativa.

Sicché non è configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia, bensì l’ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen. in presenza di condotte vessatorie poste in essere da parte di uno dei conviventi more uxorio ai danni dell’altro dopo la cessazione della convivenza.

Ciò disposto in punto di diritto, la Sesta sezione osservava che nel caso prospettatole non emergeva alcuna interruzione della convivenza. In effetti le condotte maltrattanti venivano realizzato in un periodo di tempo nel quale la coabitazione fra i due era solo, a tratti, parzialmente sospesa in ragione di momenti di più elevata criticità, ma non era venuto meno del tutto il vincolo relazionale, attesa la conservazione del rapporto sentimentale tra la vittima e l’imputato.

Conclusioni

Rigetta il ricorso proposto dal ricorrente.

[1] Così Cass. Pen. Sez. 6, n. 31929 del 25/06/2024.

[2] Cass. Pen. Sez. 6, n. 47121 del 05/10/2023.

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