SOMMARIO: 1. Massima. 2. Il fatto. 3. La decisione. 4. Conclusioni.
Massima
L’articolo 256 bis, D. Lgs. 152/2006, descrive una fattispecie autonoma di reato laddove abbia ad oggetto rifiuti pericolosi, in ragione della differenza «originaria» tra rifiuti pericolosi e non pericolosi in relazione alla presenza o meno di sostanze pericolose tout court (rifiuti pericolosi «assoluti») ovvero di sostanze pericolose in determinate concentrazioni (rifiuti «speculari» pericolosi), con conseguente esclusione della fattispecie di combustione illecita di rifiuti pericolosi dal giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen.
Il fatto
La Corte d’appello confermava la sentenza del Tribunale d, il quale condannava l’imputato in relazione al delitto di cui all’art. 256 bis D. Lgs. 152/2006, aggravato ex art. 99 cod. pen., alla pena di anni 3 e mesi 4 di reclusione.
Avverso tale decisione l’imputato, per il tramite del proprio difensore, proponeva ricorso per Cassazione articolando due motivi.
Con il primo, lamentava – ai sensi dell’art. 606, lett. e) cod. proc. pen. – il travisamento della prova principale, riguardante l’accendino rinvenuto indosso all’imputato, il quale veniva indicato come «a fiamma ossidrica», invece che a fiamma «antivento», nonché degli ulteriori dati istruttori, dei quali fornisce una più logica ipotesi controfattuale.
Con il secondo, denunciava la violazione dell’art. 256 bis D. Lgs. 152/2006. La Corte d’Appello non effettuava il bilanciamento tra circostanze eterogenee ad effetto speciale. Invero, seguendo il ragionamento della difesa la combustione di rifiuti pericolosi, prevista dall’ultima parte del comma 1, non costituisce ipotesi autonoma di reato.
La decisione
Il ricorso risultava infondato.
In riferimento al primo motivo, la Corte di Cassazione rilevava che si trattava di «doppia conforme». In tali casi, è sì possibile dedurre il vizio del travisamento della prova, ma esclusivamente se: «[…] il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, ovvero quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite»[1].
Di contro, il ricorso sarebbe ammissibile se il dato probatorio, asseritamente travisato, sia stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado. A tal fine, l’erronea valutazione della prova deve essere macroscopicamente o manifestamente evidente tale da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti.
Pertanto: «al fine dell’accoglimento del ricorso è necessario che la deduzione abbia un oggetto definito e inopinabile, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della dichiarazione (o di altro elemento di prova) e quello tratto dal giudice, di guisa che il travisamento sia tale da «disarticolare» l’intero ragionamento probatorio»[2].
Nel caso di specie, la Corte rilevava che il ricorso era diretto a ripercorrere il merito delle valutazioni del compendio probatorio, precluso in sede di legittimità.
Sul secondo motivo, relativo alla qualificazione quale reato autonomo dell’art. 256 bis, D. Lgs. 152/2006, la Corte di Cassazione premetteva l’assenza di precedenti pronunce sul tema, salvo l’obiter contenuto nella sentenza n. 16346 del 11/01/2021, resa dalla Terza Sezione. Ivi, veniva disposto che: «il “nuovo” art. 256-bis, introdotto dall’art. 3 del d.l. n. 136 del 2013, come convertito con modifiche nella legge n. 6 del 2014, nel medesimo d.lgs., ha previsto due delitti nei primi due commi, ai quali vengono affiancati tre circostanze aggravanti al primo, al terzo e al quarto comma».
D’altra parte, l’Ufficio del massimario e del ruolo, nel commento alla L. 6 febbraio 2014, n. 6, ammetteva che il testo legislativo potesse indurre a ritenere la sussistenza di un’autonoma fattispecie incriminatrice piuttosto che una circostanza aggravante, valorizzando la circostanza dell’autonoma determinazione della pena, nonché il riferimento dei commi 3, 4 e 5 dell’art. 256 bis, riferendosi ai “delitti di cui al comma 1”. Purtuttavia, i commentatori rilevavano che con la modifica avvenuta in sede di conversione del D. L. n. 136/2013, il legislatore preferiva le espressioni singolari: “delitto di cui al comma 1” (comma 3); “fatto di cui al comma 1” (comma 4), “reato di cui al comma 1” (comma 5), preferendosi – dunque – la definizione di circostanza aggravante.
La visione non è, però, unitaria. Parte della dottrina propende per la natura autonoma della fattispecie, evidenziando che il comma 1 dell’art. 256 bis, D. Lgs. 152/2006 è una norma a «fattispecie alternative», unificate dalla similitudine tra le condotte, ma distinte da elementi specializzati bilaterali. Da un lato, si registra la specializzazione della natura dei rifiuti, cioè pericolosa, rispetto alla natura non pericolosa degli stessi; dall’altro, la norma non ripete tutte le caratteristiche della fattispecie.
In sintesi, il legislatore non attua un mero rinvio alla ipotesi «base» di combustione illecita, ma, riformulando la fattispecie, ometterebbe di valorizzare il riferimento al deposito illegittimo del rifiuto.
Inoltre, le ipotesi circostanziate di cui ai commi 3 e 4, e al comma 2, ha operato un rinvio sanzionatorio alle «stesse pene» previste dal comma 1. La declinazione, quindi, sarebbe sintomatica della volontà di distinguere le due ipotesi criminose descritte nell’alveo del medesimo comma 1.
Infine, tale orientamento valorizza il dato relativo ad analoghe previsioni del D. Lgs. 152/2006 (artt. 256 e 257), sempre considerate dalla giurisprudenza come autonome.
Tanto ricostruito, considerati insufficienti i criteri strutturale e letterale, la Corte risolveva la questione seguendo quello criterio sistematico, analizzando l’intera disciplina della parte IV del D. Lgs. n. 152/2006.
Dalla lettura degli articoli 183 e 184, D. Lgs. 152/2006, emerge che i rifiuti vengono classificati secondo l’origine – distinti in “urbani” e “speciali” – e secondo la pericolosità, “pericolosi” e “non pericolosi”.
Dunque, il legislatore pone distinzione in base alla «specialità» del rifiuto pericoloso, considerandoli come «originariamente» differenti, in relazione alla presenza o meno di sostanze pericolose tout court (rifiuti pericolosi «assoluti») ovvero di sostanze pericolose in determinate concentrazioni (rifiuti «speculari» pericolosi).
Tale differenza consente di concludere per la natura autonoma della fattispecie, siccome impedisce l’applicazione del principio di specialità:
«L’art. 256 bis D. Lgs. 152/2006, ha ad oggetto rifiuti pericolosi, essa costituisce figura autonoma di reato e non circostanza aggravante, in ragione della differenza «originaria» tra rifiuti pericolosi e non pericolosi in relazione alla presenza o meno di sostanze pericolose tout court (rifiuti pericolosi «assoluti») ovvero di sostanze pericolose in determinate concentrazioni (rifiuti «speculari» pericolosi), con conseguente esclusione della fattispecie di combustione illecita di rifiuti pericolosi dal giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen.»
Conclusioni
Rigetta il ricorso proposto dal ricorrente.
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[1] In modo conforme, Cfr. Cass. Pen. Sez. 2, n. 32113 del 02/07/2021, Dhayba, n.m.
[2] Cass. Pen. Sez. 5, n. 48050 del 2/7/2019, S., Rv. 27758-01; Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio, Rv. 258774 – 01.




