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La confisca di cui all’art. 2641 c.c. ha natura punitiva ed è costituzionalmente illegittima contravvenendo al rispetto del principio di proporzionalità – Corte Costituzionale 4 feb-braio 2025 n. 7

- 29 Aprile 2025

SOMMARIO: 1. Massima. 2. Il fatto. 3. La decisione. 4. Conclusioni.

Massima

La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2641, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria di una somma di denaro o beni di valore equivalente a quelli utilizzati per commettere il reato.

La Corte Costituzionale dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 2641, primo comma, cod. civ., limitatamente alle parole «e dei beni utilizzati per commetterlo».

Il fatto 

La questione di legittimità costituzionale veniva sollevata dalla Quinta sezione penale della Corte di Cassazione con ordinanza del 27 febbraio 2024, lamentando la violazione da parte dell’art. 2641 c.c., «nella parte in cui assoggetta a confisca per equivalente anche i beni utilizzati per commettere il reato», degli artt. 2, 27, commi 1 e 3, 42 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nonché in riferimento agli artt. 11 e 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 17 e 49, par. 3, della CDFUE.

Stando ai motivi di ricorso, l’art. 2641 c.c., prevedente una misura di tipo punitivo-sanzionatorio, potrebbe assumere carattere sproporzionato.

In particolare, violerebbe il divieto – previsto dagli artt. 3 e 27, commi 1 e 3, Cost. – di infliggere pene manifestatamente sproporzionate per eccesso, non solo in rapporto alle sanzioni previste per altre figure di reato, ma anche alla gravità delle condotte affasciate dalla fattispecie astratta.

Più nello specifico, l’illegittimità della misura consterebbe nell’impossibilità di una graduazione della confisca in rapporto all’illecito e alla colpevolezza dell’autore.

Inoltre, la combinazione tra la sanzione principale (artt. 2637 e 2638 c.c.) e l’ulteriore misura prevista dall’art. 2641 c.c., determinerebbe una risposta sanzionatoria sproporzionata per eccesso.

Di conseguenza, ad essere violati sarebbero altresì gli artt. 3 e 27, comma 3, essendo che una pena avente l’effetto di annientare economicamente l’autore dell’illecito non sia idonea a perseguire la finalità rieducativa del reo.

Vi sarebbe, poi, il mancato rispetto degli artt. 3 e 42 Cost., nonché dell’art. 1 Prot. Addiz. CEDU e 17 CDFUE, trattandosi di una sanzione che incide in senso limitativo sul diritto di proprietà dell’autore dell’illecito.

Infine, anche l’art. 49, par. 3, CDFUE, sarebbe violato imponendo, questo, il principio di proporzionalità della pena.

Nel caso di specie, «le esigenze di certezza del diritto penale e quelle correlate di predeterminazione, quantomeno dei criteri di riferimento ai quali il giudice deve attenersi per apprezzare l’esistenza o non (ed eventualmente in che misura) della sproporzione», indurrebbero a «escludere la possibilità di dare un’applicazione, prevedibile negli esiti, del principio di proporzionalità della risposta sanzionatoria, quando ciò possa condurre a non applicare una misura che il legislatore interno prevede come obbligatoria, senza lasciare al giudice interno alcuno spazio di graduazione».

La decisione

La Corte Costituzionale dichiarava fondate le questioni in riferimento al principio di proporzionalità della pena di cui agli artt. 3, 27, terzo comma, nonché agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi in relazione all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, restando assorbiti gli ulteriori parametri evocati dal giudice a quo.

Infatti, la confisca prevista dalla disposizione impugnata aveva natura di vera e propria sanzione punitiva di carattere patrimoniale e, in quanto tale, doverosa del rispetto dell’illustrato assunto costituzionale. In tal guisa, allora, doveva concludersi per il divieto di un’ablazione patrimoniale sproporzionata rispetto alla gravità soggettiva ed oggettiva del reato.

Come è noto, la Carta Costituzionale pacificamente ammette il principio di offensività, ma questo deve essere variamente declinato a seconda che le misure siano

«(…) orientate primariamente a punire l’interessato per un fatto da questi colpevolmente commesso, oppure a prevenire un pericolo (come nel caso delle misure di sicurezza e delle misure cautelari), o ancora a ripristinare semplicemente la situazione, fattuale e giuridica, preesistente al reato (come nel caso dell’ordine di demolizione di un immobile abusivamente costruito)».

Lo stesso ragionamento giuridico veniva trasposto alle diverse forme di confisca, in relazione alla «(…) specifica finalità e allo specifico oggetto di ciascuna di esse, nella consapevolezza – emersa già in pronunce assai risalenti di questa Corte (sentenze n. 46 del 1964 e n. 29 del 1961) – della estrema varietà di disciplina e funzioni delle confische previste nell’ordinamento italiano».

Nel caso di specie, si realizzava un’ablazione dei beni utilizzati per commettere l’illecito, incidendo – quindi – su beni ottenuti e posseduto in modo legittimo dall’autore del fatto al momento del reato, sicché – a differenza della confisca del profitto, il quale ripristina il patrimonio del reo nella situazione quo ante – determinava un peggioramento della situazione patrimoniale.

In altri termini, l’art. 2641 c.c. doveva essere qualificato come una pena di carattere patrimoniale, realizzando una «ablazione di beni di regola legittimamente acquistati e posseduti dal reo, ma dei quali egli abbia fatto un uso illegittimo, in tal modo perdendo – proprio in conseguenza della sua decisione di commettere il reato – la tutela che l’ordinamento normalmente assicura al diritto di proprietà su quegli stessi beni; senza che sia invece necessario accertare nel caso concreto la possibilità di un loro uso illecito futuro, quale condizione per poter disporne l’ablazione».

Così concludendosi, non può che assoggettarsi al principio di proporzionalità la suddetta confisca, sicché sorgeva la necessità a che la pena (rectius la confisca) non costituisca una reazione sproporzionata rispetto al reato consumato. Tale giudizio non si pondera esclusivamente sulla gravità oggettiva e soggettiva del reato, ma anche sulle condizioni economiche e patrimoniali del soggetto colpito dalla pena[1].

Un tale meccanismo poteva essere garantito soltanto attraverso una applicazione discrezionale dell’autorità preposta alla loro attuazione, così da evitare impieghi esorbitanti rispetto la capacità patrimoniale del colpevole.

Ebbene, il vulnus dell’art. 2641 c.c. veniva rappresentato proprio dalla sottrazione a tali principi. Essendo una previsione obbligatoria e vincolante, il giudice doveva applicare la misura a prescindere da qualsivoglia valutazione, anche qualora essa risultava palesemente sproporzionata. Infatti, la Corte rilevava che:

«Il primo e il secondo comma di tale disposizione, infatti, obbligano il giudice a imporre al soggetto un sacrificio patrimoniale, la cui entità dipende esclusivamente dal valore dei beni che, in concreto, sono stati utilizzati per commettere il reato. Ciò senza alcuna relazione con l’effettivo vantaggio patrimoniale conseguito mediante la commissione del reato; e senza alcun correttivo che consenta al giudice di valutare, in ciascun caso concreto, se il soggetto disponga effettivamente delle risorse per far fronte all’ablazione patrimoniale impostagli, né quale impatto tale ablazione possa avere sulla sua esistenza futura».

Le conclusioni sinora svolte si sovrappongono con quanto espresso in ambito sovranazionale.

Innanzitutto, già l’art. 4, par. 1, dir. 2014/42/UE, relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione, prevedeva la predisposizione da parte degli Stati membri di misure necessarie per poter procedere alla confisca, totale o parziale, dei beni strumentali al reato o, comunque, di valore corrispondente. Ma, comunque, l’obbligo ricadeva in capo al legislatore, nel senso di una predisposizione da parte di quest’ultimo del prescritto meccanismo normativo, non già sulla esecuzione della stessa da parte del Giudice.

Inoltre, a sostegno veniva citato altresì il considerando n. 17 della suddetta direttiva, il quale chiariva che: «se, alla luce delle circostanze particolari del caso di specie, tale misura è proporzionata, considerato, in particolare, il valore dei beni strumentali interessati».

Le indicazioni venivano confermate dalla direttiva n. 1260/2024, sostitutiva della precedente 2014/42/UE. In particolare, il considerando n. 27 era rigoroso nel predisporre, in materia di confisca per equivalente, il rispetto del principio distillato dall’art. 49 CDFUE[2].

Dalle considerazioni svolte, ne derivava che la disciplina al vaglio della Corte Costituzionale fosse incompatibile con tutti i parametri evocati, sia nella sua dimensione interna che in quella sovranazionale, contrastando con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost.; artt. 11 e 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 49, par. 3, CDFUE.

Il vizio riscontrato risiedeva nel carattere obbligatorio della confisca prevista da tale disposizione, che vincolava il giudice ad applicare la misura ablativa anche quando, come nel caso concreto, il suo impatto risultava sproporzionato rispetto alla gravità del reato e alle condizioni economiche e patrimoniali dell’interessato.

Il Giudice delle Leggi, poi, formulava un invito al legislatore rispetto alla possibilità di mutare la natura della confisca da obbligatoria a facoltativa.

Sebbene la Corte Costituzionale possa – in astratto – intervenire con sentenza manipolative; nel caso concreto, tale intervento gli era precluso in virtù del principio della separazione dei poteri, essendo tale prospettazione una facoltà esclusiva del potere legislativo: «[l]’esigenza di far ricorso a una pronuncia di tipo manipolativo, che sostituisca la sanzione censurata con altra conforme a Costituzione, si pone imprescindibilmente solo allorché la lacuna di punibilità che conseguirebbe a una pronuncia ablativa, non colmabile tramite l’espansione di previsioni sanzionatorie coesistenti, si riveli foriera di “insostenibili vuoti di tutela” per gli interessi protetti dalla norma incisa».

Nel caso di specie, l’ablazione della parte di disposizione riferito alla confisca per equivalente dei beni strumentali non avrebbe creato alcun vuoto di tutela degli interessi protetti dalle norme penali, di conseguenza, resta ferma la confisca obbligatoria del profitto, diretta o per equivalente.

Alla luce delle ragioni sin qui esposte, l’art. 2641, comma 2, c.c. veniva dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevedeva la confisca obbligatoria di una somma di denaro o beni di valore equivalente a quelli strumentali alla commissione del reato.

Ai sensi dell’art. 27, L. 87 del 1952, la valutazione veniva estesa anche all’art. 2641, comma 1, c.c., limitatamente alle parole: «e dei beni utilizzati per commetterlo».

Resta, infine, inalterata la facoltà del giudice, nel rispetto del principio di proporzionalità, di disporre la confisca diretta ai sensi dell’art. 240 c.p.

Conclusioni

Le questioni di legittimità costituzionale sollevate devono essere dichiarate fondate.

Pertanto, la Corte Costituzionale:

1) dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 2641, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria di una somma di denaro o beni di valore equivalente a quelli utilizzati per commettere il reato;

2) dichiarava, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 2641, primo comma, cod. civ., limitatamente alle parole «e dei beni utilizzati per commetterlo».

[1] La Corte Costituzionale, a pagina 14 della sentenza, richiama il precedente costituito dalla sentenza n. 28 del 2022 nei seguenti termini: «mentre la pena detentiva comprime la libertà personale, che è “bene primario posseduto da ogni essere vivente”, la pena pecuniaria incide sul patrimonio, bene che “non inerisce naturalmente alla persona umana”. Da ciò deriva che la pena pecuniaria strutturalmente “comporta l’inconveniente di una disuguale afflittività e al limite, dell’impossibilità di applicarla, in funzione delle diverse condizioni economiche dei soggetti condannati”. Dunque, mentre l’impatto di pene detentive di eguale durata può in linea di principio ipotizzarsi come omogeneo per ciascun condannato, così non è per le pene pecuniarie: una multa del medesimo importo può risultare più o meno afflittiva secondo le disponibilità reddituali e patrimoniali del singolo condannato».

[2] Invero, secondo la Corte Costituzionale, il riferimento sarebbe ultroneo essendo che il principio di proporzionalità è contenuto nell’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, che ha portata generale e vincolante nell’intero ambito di attuazione del diritto dell’Unione, e come tale si applica a qualsiasi forma di confisca disciplinata dagli strumenti unionali.

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