
SOMMARIO: 1. Massima. 2. Il fatto. 3. La decisione. 4. Conclusioni.
Massima
La testimonianza della persona offesa, perché possa essere legittimamente utilizzata come fonte ricostruttiva del fatto per il quale si procede non necessita di altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità ma, anzi, al pari di qualsiasi altra testimonianza, è sorretta da una presunzione di veridicità secondo la quale il giudice, pur essendo tenuto a valutarne criticamente il contenuto, verificandone l’attendibilità, non può assumere come base del proprio convincimento l’ipotesi che il teste riferisca scientemente il falso.
Il fatto
Il Tribunale riteneva colpevole dei reati ascritti l’imputato dei delitti di cui agli artt. 572, comma 2, 582 – 609 bis c.p.
La Corte d’Appello riqualificava la circostanza aggravante del fatto commesso con armi e le residue circostanze aggravanti di cui all’art. 572, secondo comma, c.p. in quelle di cui all’art. 61, n. 11-quinquies c.p., rideterminando la pena in anni cinque, mesi quattro e giorni quindici giorni di reclusione, confermando nel resto la condanna dell’imputato.
Avverso la sentenza di gravame veniva proposto ricorso per Cassazione dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello e dall’imputato, per il tramite del proprio difensore.
Il Procuratore generale articolava due motivi.
Il primo denunciava l’inosservanza della legge penale in relazione all’erroneo calcolo della pena.
Nel determinare la pena per la continuazione, la Corte di appello riteneva più grave il delitto di violenza sessuale commesso nel 2020 applicando, però, la pena base in misura superiore al minimo edittale vigente all’epoca della consumazione del medesimo delitto commesso nel 2016.
Nella medesima direzione si poneva il secondo motivo. Con questo il Procuratore generale deduceva la mancanza o l’illogicità della motivazione, in quanto il Giudice di seconde cure ometteva di chiarire l’esclusione della maggiore gravità della violenza sessuale commessa con il coltello nel 2016, benché, in entrambi gli episodi contestati (2016 e 2020), l’atto sessuale sia stato il medesimo.
L’imputato, d’altro canto, proponeva tre motivi.
In primo luogo, ai sensi dell’art. 606, lett. e), c.p.p., osservava che la persona offesa, sulla cui base veniva poi emanata la sentenza di condanna, non poteva ritenersi credibile, non riuscendo a collocare nel tempo gli episodi da lei sofferti.
Inoltre, il Collegio giudicante ignorava, ai fini dell’accertamento dell’elemento soggettivo, il contesto affettivo e d’intimità dei due rapporti sessuali incriminati, i quali venivano intervallati da copulazioni di tipo consenziente.
Successivamente, sottolineava la carenza di motivazione in ordine agli aumenti di pena applicati a titolo di continuazione.
Infine, deduceva la mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p. in relazione al reato di detenzione illegale di armi bianche proprie.
La decisione
La Terza sezione della Corte di Cassazione riteneva entrambi i ricorsi inammissibili.
Per quanto riguarda il primo profilo del ricorso dell’imputato, ossia la non credibilità della persona offesa, la Corte ribadiva un principio di diritto quanto mai pacifico in giurisprudenza: in generale, la testimonianza della persona offesa, perché possa essere legittimamente utilizzata come fonte ricostruttiva del fatto per il quale si procede non necessita di altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità ma, anzi, al pari di qualsiasi altra testimonianza, è sorretta da una presunzione di veridicità secondo la quale il giudice, pur essendo tenuto a valutarne criticamente il contenuto, verificandone l’attendibilità, non può assumere come base del proprio convincimento l’ipotesi che il teste riferisca scientemente il falso.
È però vero che l’esame della vittima del reato deve essere più penetrante e specifico laddove questa si portatrice di un interesse personale. Purtuttavia, questa considerazione non si traduce in un aprioristico giudizio di inaffidabilità della testimonianza stessa e non consente di collocarla, di fatto, sullo stesso piano delle dichiarazioni provenienti dai soggetti indicati dall’art. 192, commi 3 e 4, c.p.p.
Quanto analizzato sinora deve essere temperato dalla particolarità dei reati sessuali, ove, spesso, sono presenti esclusivamente i due protagonisti della vicenda (imputato-persona offesa).
«In questi casi la deposizione della persona offesa può essere assunta anche da sola come fonte di prova della colpevolezza, ove venga sottoposta ad un’indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l’ha resa, dato che in tale contesto processuale il più delle volte l’accertamento dei fatti dipende necessariamente dalla valutazione del contrasto delle opposte versioni di imputato e parte offesa, soli protagonisti dei fatti, in assenza, non di rado, anche di riscontri oggettivi o di altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall’esterno, all’una o all’altra tesi».
Diretta conseguenza è che non sarebbe giuridicamente corretto fondare il giudizio di inattendibilità sul solo dato dell’oggettivo contrasto con altre prove testimoniali, soprattutto se provenienti da persone che non hanno assistito al fatto.
Di contro, seguendo questa lettura, si introdurrebbe una gerarchia tra fonti di prova viziata da una valutazione di aprioristica inattendibilità della testimonianza della persona offesa che, come detto, non è ammissibile.
Bisogna, poi, ricordare come la valutazione della credibilità della persona offesa costituisce una questione di merito e, come tale, non può essere scrutinata in sede di legittimità, salvo che il Giudice sia incorso in palese contraddizioni.
Infine, la circostanza per cui le due violenze sessuali, consumate nell’ambito di un rapporto coniugale, erano intervallate da rapporti consensuali è muta rispetto all’integrazione del reato, anche da un punto di vista soggettivo.
Questa considerazione ribalta, a favore dell’imputato, «la ratio puniendi della violenza sessuale quasi che nel rapporto affettivo si affievolisca, nel nome di un arcaico obbligo coniugale, il diritto assoluto del partner di decidere se e quando acconsentire a disporre del proprio corpo a fini sessuali. Ed è deduzione, sotto questo profilo, irricevibile.».
Ugualmente infondato era il secondo motivo.
Ripercorrendo il calcolo della pena posto dalla Corte d’Appello, questo appare corretto e adeguatamente motivato.
Infatti, veniva indicata come pena base per il delitto più grave, il minimo edittale del reato di cui all’art. 609 bis c.p., commesso nel 2020, equivalente ad anni sei di reclusione.
Riconosciute, poi, le attenuanti generiche ai sensi dell’art. 62 bis c.p., veniva diminuita ad anni quattro anni di reclusione.
Infine, riconosciuto il vincolo della continuazione interna di mesi sei; di ulteriori mesi sei per il delitto di maltrattamenti; di mesi due e giorni quindici per le lesioni personali; di mese uno di reclusione per le lesioni rubricate al capo D; di altri giorni quindici per il reato di cui al capo E; la pena finale veniva calcolata in anni cinque, mesi quattro e giorni quindici di reclusione.
La Terza Sezione riprendeva il principio di diritto affermato dalle SS.UU. n. 47127/2021, secondo cui:
«in tema di reato continuato, il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base, deve anche calcolare e motivare l’aumento di pena in modo distinto per ciascuno dei reati satellite. Il grado di impegno motivazionale richiesto in ordine ai singoli aumenti di pena è correlato all’entità degli stessi e tale da consentire di verificare che sia stato rispettato il rapporto di proporzione tra le pene, anche in relazione agli altri illeciti accertati, che risultino rispettati i limiti previsti dall’art. 81 cod. pen. e che non si sia operato surrettiziamente un cumulo materiale di pene».
Ebbene, nel caso di specie, la Corte d’Appello milanese ragionava in modo sintetico, ma in modo adeguato alla complessiva mitezza della condanna inferiore, comunque, al minimo edittale del reato più grave.
Anche l’ultimo motivo, relativo al mancato riconoscimento della causa di non punibilità rappresentata dall’art. 131 bis c.p., era da considerarsi infondato.
I Giudici distrettuali ne escludevano l’operatività sia perché si trattava di tre armi bianche sia per la sua capacità lesiva delle tre, da valutarsi unitamente al rilievo per cui il ricorrente commetteva commesso i reati di maltrattamenti e violenza sessuale, in costanza di detenzione delle armi.
La Corte di Cassazione riteneva altresì infondato il ricorso del P.G.
Il primo motivo articolava l’erroneo calcolo della pena susseguente agli aumenti dovuti alla continuazione.
La risposta degli Ermellini riprendeva il principio di diritto espresso dalle SS.UU. n. 25939/2013, per cui: «In tema di reato continuato, la violazione più grave va individuata in astratto in base alla pena edittale prevista per il reato ritenuto dal giudice in rapporto alle singole circostanze in cui la fattispecie si è manifestata e all’eventuale giudizio di comparazione fra di esse».
Il delitto di violenza sessuale commesso nel 2020 veniva punito – a seguito della riforma del 2019 – con pena edittale più elevata rispetto al testo pre-riforma (reclusione da cinque a dieci anni). Sicché veniva correttamente individuato il fatto più grave nella violenza sessuale del 2020, a prescindere dalle concrete modalità di consumazione del meno grave reato commesso nel 2016.
Conclusioni
Dichiara inammissibile il ricorso del PG.
Dichiara inammissibile il ricorso dell’imputato che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.