
SOMMARIO: 1. Abstract. 2. Svolgimento del processo. 3. Motivi della decisione. 4. Analisi giuridica ed impatto sul quadro normativo. 5. Conclusioni.
Abstract
Negli ultimi anni, il tema del diritto all’oblio ha assunto crescente rilevanza giuridica, in particolare nella giurisprudenza italiana ed europea, a seguito della pervasività dei motori di ricerca nel plasmare la memoria collettiva e digitale. La sentenza in esame si inserisce in un contesto dinamico, che sollecita un bilanciamento costante tra valori costituzionali concorrenti. Obiettivo del presente contributo è offrire una lettura sistematica della pronuncia Cass. n. 14488/2025, valorizzandone le ricadute teorico-pratiche. Il diritto all’oblio impone, in presenza di una sentenza definitiva di assoluzione da gravi accuse penali, un effettivo bilanciamento tra l’interesse pubblico all’informazione e il diritto alla tutela della reputazione, dell’identità personale e della riservatezza. Quando l’informazione reperibile in rete tramite motore di ricerca non è aggiornata, risulta obsoleta e incide negativamente sull’immagine del soggetto, l’interessato può legittimamente chiedere la deindicizzazione degli URL, anche se questi riguardano notizie originariamente lecite.
Nel caso in esame, la Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso di un imprenditore che, pur assolto dalla Corte di cassazione da ogni accusa di appartenenza mafiosa, risultava ancora indicizzato su Google in relazione a quei fatti. La Suprema Corte ha censurato il mancato bilanciamento operato dal Tribunale di Milano, imponendo un nuovo esame della controversia.
Svolgimento del processo
Il caso trae origine da un ricorso ex art. 79 del GDPR presentato nel novembre 2022 al Tribunale di Milano da un imprenditore, già sottoposto nel 2011 a custodia cautelare per presunta affiliazione alla ‘ndrangheta. Dopo un’assoluzione in primo grado, fu condannato in appello, ma la Cassazione nel 2015 lo assolse definitivamente dall’accusa di associazione mafiosa.
Nonostante ciò, nel 2022, il ricorrente ha scoperto che Google indicizzava ancora diversi URL contenenti notizie sulla sua vicenda giudiziaria, privi di aggiornamenti riguardo all’assoluzione. Dopo aver tentato invano la rimozione tramite Google, l’interessato ha agito giudizialmente chiedendo la deindicizzazione degli URL lesivi, oltre a un risarcimento per danni morali e patrimoniali.
Google si è costituita, opponendosi al ricorso e sostenendo che le informazioni riportate nei link erano ancora di interesse pubblico e non inesatte, anche perché il ricorrente era stato comunque condannato per usura aggravata, in concorso con un esponente del clan mafioso.
Il Tribunale di Milano, con sentenza del febbraio 2024, ha accolto solo parzialmente la domanda: su 14 URL inizialmente contestati, 10 erano già stati rimossi, ma per i restanti 4 la richiesta di deindicizzazione è stata respinta, ritenendo prevalente l’interesse collettivo a conoscere i fatti.
La decisione
Nel valutare il ricorso proposto dall’imprenditore per tramite degli Avvocati Angelica Parente e Domenico Bianculli del foro di Roma, la Corte di Cassazione ha ritenuto fondate le censure avanzate contro la sentenza del Tribunale di Milano, la quale aveva negato il diritto alla deindicizzazione di quattro URL che continuavano ad associare il nome del ricorrente a vicende di criminalità organizzata, nonostante una sentenza di assoluzione definitiva intervenuta ormai da anni. La Suprema Corte ha messo in luce come il giudizio di primo grado si sia fondato su un’impostazione giuridicamente scorretta, soprattutto nel bilanciamento tra il diritto all’oblio e l’interesse pubblico all’informazione, mancando di apprezzare il contesto normativo e giurisprudenziale delineato dall’art. 17 del GDPR e dalle più recenti pronunce della giurisprudenza nazionale e sovranazionale.
Una delle principali critiche mosse al Tribunale riguarda il criterio temporale adottato per valutare la sussistenza del diritto all’oblio. Il giudice di merito aveva, infatti, ritenuto rilevante esclusivamente la data della sentenza della Cassazione (1° settembre 2015), omettendo di considerare che gli articoli contestati erano stati pubblicati già nel 2010-2011, dunque ben prima della pronuncia assolutoria. Tale impostazione è stata ritenuta erronea dalla Corte, la quale ha chiarito che il decorso del tempo rilevante ai fini del diritto all’oblio deve essere computato dalla data della pubblicazione originaria della notizia, e non da quella dell’eventuale esito processuale successivo. La persistenza online di contenuti obsoleti e non aggiornati, soprattutto quando riferiti ad accuse non confermate in sede giudiziaria, determina infatti un pregiudizio sproporzionato e ingiustificato per il soggetto interessato, tale da giustificare l’intervento del giudice a tutela della sua reputazione e identità personale.
Un ulteriore vizio individuato dalla Cassazione consiste nell’aver il Tribunale attribuito eccessivo peso alla circostanza che il ricorrente fosse stato condannato per reati diversi (nello specifico, episodi di usura aggravata), utilizzando tale elemento per giustificare la permanenza in rete di contenuti che, tuttavia, non facevano riferimento a tali reati, ma esclusivamente all’accusa – poi rivelatasi infondata – di appartenenza a una cosca mafiosa. Il Collegio ha sottolineato che il trattamento dei dati personali, ai sensi del GDPR, deve essere sempre pertinente, esatto e aggiornato, e che l’associazione di una persona ad un reato grave, come l’affiliazione a un’organizzazione criminale, quando non confermata da una condanna definitiva, risulta lesiva in sé e per sé, a prescindere dall’esistenza di altre condanne per fatti distinti.
La Suprema Corte ha dunque stigmatizzato la mancata considerazione, da parte del Tribunale, della natura intrinsecamente diffamatoria e potenzialmente falsificante delle informazioni contestate, che continuavano ad essere liberamente accessibili attraverso il motore di ricerca e che non riportavano in alcun modo l’esito assolutorio del procedimento penale. La mancata contestualizzazione della notizia, la sua obsolescenza e la sua rilevante capacità di incidere sull’immagine sociale dell’individuo – peraltro non più coinvolto in alcuna attività politica o pubblica – configurano, a giudizio della Corte, un vizio nel bilanciamento tra i diritti coinvolti, che impone la cassazione della decisione di merito.
Analisi giuridica ed impatto sul quadro normativo
La sentenza della Corte di Cassazione n. 14488/2025 si inserisce in un filone giurisprudenziale in continua evoluzione, che cerca di definire, con crescente precisione, i confini tra libertà di informazione e tutela della dignità personale nell’ecosistema digitale contemporaneo. Il punto di partenza della riflessione è rappresentato dall’articolo 17 del Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR), che disciplina il diritto alla cancellazione dei dati personali, anche noto come “diritto all’oblio”. Tale disposizione riconosce all’interessato la facoltà di ottenere la rimozione dei propri dati personali laddove non sussista più una base giuridica che giustifichi la loro conservazione o diffusione, soprattutto se i dati non sono più necessari rispetto alle finalità originarie del trattamento o risultano inesatti, non aggiornati o sproporzionati rispetto all’identità attuale del soggetto.
Nel caso di specie, la Cassazione ribadisce che il diritto all’oblio non consiste in una mera facoltà soggettiva di chiedere la rimozione dei contenuti sgraditi, bensì in un vero e proprio diritto fondamentale, che si radica nei principi di riservatezza, identità personale e autodeterminazione informativa, sanciti tanto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (artt. 7 e 8), quanto dalla nostra Costituzione (artt. 2 e 21). In particolare, la giurisprudenza ha chiarito che, in presenza di notizie risalenti nel tempo, legittimamente pubblicate in passato, il loro mantenimento accessibile attraverso motori di ricerca può risultare sproporzionato e dannoso, soprattutto se la notizia non viene aggiornata con gli sviluppi successivi (come un’assoluzione o un provvedimento di archiviazione).
È in questa prospettiva che la Corte richiama l’elaborazione della giurisprudenza europea (si pensi alla nota sentenza Google Spain vs. Costeja[1], C-131/12) e nazionale[2], secondo cui la libertà di cronaca, sebbene costituisca un diritto fondamentale, può e deve subire limitazioni ogniqualvolta non sussista un interesse pubblico attuale alla conoscibilità della notizia. In tal senso, la Corte ribadisce che l’interesse pubblico non può essere ancorato alla mera notorietà del fatto al momento della sua pubblicazione, ma deve essere valutato alla luce del contesto contemporaneo, considerando se il soggetto continui a rivestire un ruolo pubblico, se la notizia sia aggiornata, e se la sua diffusione risponda ancora a uno scopo informativo giustificato.
Nel caso in esame, nessuna di queste condizioni risultava soddisfatta. Gli URL in questione contenevano notizie ormai superate e non aggiornate, riferite a un’accusa penale poi caduta. Nessun ruolo pubblico effettivo risultava rivestito dal ricorrente negli anni successivi, e nessuna finalità storica o culturale poteva giustificare la permanenza online di contenuti gravemente lesivi. A ciò si aggiunge che la Cassazione ha valorizzato il ruolo dei motori di ricerca come “titolari del trattamento” ai sensi del GDPR, tenuti dunque non solo a rispondere alle richieste di cancellazione, ma anche a svolgere un’attenta attività di bilanciamento, che non può essere elusa con automatismi o rifiuti generalizzati.
La pronuncia in commento contribuisce a rafforzare un orientamento che intende garantire un uso responsabile della memoria digitale e un equilibrio tra il diritto all’informazione e il rispetto dell’identità personale. In questa ottica, la deindicizzazione – più che una cancellazione tout court – si conferma uno strumento proporzionato ed efficace per tutelare la reputazione degli individui, senza sacrificare il diritto del pubblico ad accedere agli archivi storici, qualora vi sia una ragione giustificata per farlo.
Conclusioni
La pronuncia de quo rappresenta un’ulteriore tappa nel consolidamento giurisprudenziale del diritto all’oblio, specie nei confronti dei motori di ricerca, che, pur non essendo editori, sono responsabili del trattamento dei dati personali indicizzati e sono tenuti ad adottare un comportamento attivo in risposta alle richieste di cancellazione.
La decisione sottolinea l’obbligo di procedere a un bilanciamento effettivo, ragionevole e proporzionato, che tenga conto del decorso del tempo, dell’esito dei procedimenti penali e dell’attualità dell’interesse pubblico alla notizia.
Il caso esaminato evidenzia come la mancata deindicizzazione di informazioni non aggiornate, collegate a una persona assolta in via definitiva, non solo leda il diritto all’oblio, ma possa costituire una violazione del principio di correttezza del trattamento dei dati, imponendo un intervento riparatorio anche da parte del giudice.
Con questa decisione, la Corte ha riaffermato che la reputazione e la verità biografica digitale sono diritti da tutelare, anche in contesti in cui, formalmente, la pubblicazione originaria della notizia era lecita.
La sentenza rafforza infine l’idea di una responsabilità attiva di Google e degli altri motori di ricerca, che non possono rimanere neutrali di fronte a richieste legittime basate su dati superati, errati o lesivi della dignità della persona.
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[1] Corte di Giustizia, Grande Sezione, 13 maggio 2014, causa C-131/12, Google Spain SL e Google Inc. c. Agencia Española de Protección de Datos (AEPD) e Mario Costeja González.
[2] Cfr. Cass. n. 6919/2018, SS.UU. n. 19681/2019, Cass. n. 2893/2023