
SOMMARIO: 1. Massima. 2. Il fatto. 3. La decisione. 4. Conclusioni.
Massima
In tema di reati sessuali, ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, non è necessario che la condotta sia finalizzata a soddisfare il piacere sessuale dell’agente, in quanto è sufficiente che questi sia consapevole della natura oggettivamente sessuale dell’atto posto in essere volontariamente, ossia della sua idoneità a soddisfare il piacere sessuale o a suscitarne lo stimolo, mentre l’eventuale concorrente finalità dell’agente ingiuriosa o minacciosa, così come scherzosa, non esclude la connotazione sessuale dell’azione.
Il fatto
Il Tribunale condannava l’imputato per violenza sessuale.
Successivamente, nel giudizio di gravame, la Corte d’appello riduceva la pena inflitta.
L’imputato, per il tramite del proprio difensore, proponeva ricorso per Cassazione articolando otto motivi.
Con il primo motivo deduceva – ai sensi dell’art. 606 lett. e) cod. proc. pen. – la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione perché, in riferimento al delitto di cui al capo 1), la Corte di appello ometteva di valutare una prova documentale decisiva che avrebbe dovuto indurre il giudicante a prestare maggiore attenzione alle dichiarazioni della P.O., dimostrando la natura preordinata delle accuse.
Il secondo motivo, di natura non dissimile al primo, evidenziava la non credibilità della P.O.
Nel dettaglio, la Corte di appello avrebbe reso una motivazione viziata sul punto: a) travisando la prova del momento in cui la ragazza sarebbe stata riportata a casa dal ricorrente, nonché i referti medici, i quali sarebbero incompatibili con quanto esposto in sede di esame dalla persona offesa; b) omettendo di valutare l’assenza di segni sul volto del ricorrente, che avrebbero dovuto essere riscontrati, stando alle parole della persona offesa; c) trascurando la differenza di statura tra il ricorrente e la persona offesa; d) mancando di approfondire la perizia legale sulle condizioni psicologiche della persona offesa.
Il successivo motivo di ricorso si fondava sull’art. 606, lett. b) cod. proc. pen., evidenziando l’inosservanza ovvero l’erronea applicazione dell’art. 43 cod. pen. Invero, la sentenza di secondo grado confermava la condanna nonostante l’imputato non percepiva il dissenso della persona offesa: questa, in realtà, gli avrebbe ripetutamente giurato di volere il rapporto sessuale, fornendogli anche il preservativo.
Il quarto motivo, riguardante il capo 2), lamentava l’inosservanza di norme processuali circa l’utilizzabilità di un filmato, girato e manipolato dalla persona offesa. A sostegno veniva citata la giurisprudenza di legittimità, secondo cui la copia di un documento sarebbe utilizzabile solo quando l’originale non sia disponibile e salvo che se ne deduca e dimostri la non manipolazione.
Intimamente connesso era il quinto motivo evidenziando la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione relativamente al filmato fornito dalla persona offesa del reato, il quale – secondo l’impostazione difensiva – non effigiava toccamenti né aveva un contenuto oggettivamente sessuale né, infine, poteva ritenersi genuino siccome il contenuto non era stato consegnato integralmente.
Il sesto motivo denunciava la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione quanto all’elemento soggettivo del reato di cui al capo 2). Dal compendio probatorio non risultava in alcun modo che la vittima aveva percepito una minaccia alla propria sfera sessuale, tanto da indurlo a credere di partecipare ad uno scherzo, così inteso da entrambi e da entrambi accettato.
Il penultimo motivo lamentava un vizio di motivazione per il mancato riconoscimento dell’attenuante della minore gravità ex art. 609-bis, comma 3, cod. pen. La Corte di appello l’avrebbe negata in ragione di una presunta predominanza fisica del ricorrente rispetto alle persone offese. In realtà così non era, perché: la ragazza del capo 1) sarebbe più bassa dell’imputato di soli 2 cm., mentre il ragazzo del capo 2) sarebbe addirittura più alto, e di circa 20 cm., come peraltro emergerebbe dalla visione delle immagini.
L’ultimo motivo di ricorso desumeva l’inosservanza dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. I Giudici di primo grado rigettavano la richiesta di giudizio abbreviato condizionato con motivazione contraddittoria, ora evidenziandone l’eccessiva onerosità in termini di tempo, ora svalutandone il merito.
Successivamente, in sede di gravame, il ragionamento risultava viziato, perché privo di novità e decisività dell’integrazione probatoria richiesta, peraltro comunque emersa dal fatto che l’istruttoria l’avrebbe interamente recepita, addirittura sviluppandosi in termini più ampi.
La decisione
Il ricorso risultava infondato.
In riferimento al primo motivo, la Terza Sezione riportava l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario, secondo cui per “prova decisiva” – così come previsto dall’art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen. – deve intendersi la prova che: «confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante».
Adeguando il principio di diritto al caso concreto, la Suprema Corte rilevava che la prova oggetto del primo motivo di ricorso non rivestiva tale carattere. La difesa, sul punto, argomentava genericamente adducendo che il documento “avrebbe dovuto indurre il giudicante a prestare maggiore attenzione alle dichiarazioni accusatorie di I. A. ed a sottoporre ad un più attento vaglio critico le accuse e le dichiarazioni delle amiche”.
La deduzione, ancora, era da definirsi generica vista perché ometteva di confrontarsi con le numerose e più che articolate considerazioni svolte da entrambi i Giudici del merito in ordine all’attendibilità della stessa.
A tal proposito, l’incontro tra la vittima e il reo non veniva giammai contestato dalla difesa con riguardo alle circostanze di tempo e di luogo, sicché l’esatta collocazione degli eventi non può costituire argomento per valutare l’attendibilità della persona offesa.
Il primo motivo di ricorso, dunque, era infondato.
Anche il secondo motivo, relativo alla credibilità della P.O.[1], veniva ritenuto manifestatamente infondato. Il ragionamento logico-giuridico della difesa si sviluppava attraverso diversi profili di travisamento della prova.
In realtà, la deduzione tendeva ad ottenere in sede di legittimità una nuova e differente lettura delle risultanze istruttorie già esaminate nelle sedi di merito. Tra l’altro, il motivo di ricorso ometteva di confrontarsi con la pronuncia impugnata, la quale – in realtà – motivava in modo adeguato e coerente con il compendio probatorio, risultando priva di contraddizioni.
Sul punto, i Giudici di merito valorizzavano: a) la piena coerenza del racconto; b) l’assenza di qualunque elemento di inimicizia o rivalsa nei confronti dell’imputato, così come di elementi di colore (come con riguardo alle modalità del rapporto); c) l’immediatezza con la quale la ragazza aveva riferito al padre quanto accaduto, in evidente stato di agitazione e pianto; d) i numerosi riscontri, anche indiretti, documentali e testimoniali, che le accuse avevano ricevuto.
Per tale motivo, anche il secondo motivo di ricorso era da considerarsi infondato.
Ugualmente inammissibile era il terzo motivo di ricorso, con il quale si negava la presenza dell’elemento soggettivo siccome l’imputato non percepiva il dissenso della persona offesa.
In disparte la già svolta considerazione secondo cui in sede di legittimità non può esservi un nuovo esame del compendio probatorio (nella specie i messaggi “Whatsapp” che i due si erano scambiati nella notte successiva al fatto), gli argomenti difensivi erano avulsi rispetto a quanto spiegato nella sentenza impugnata, la quale evidenziava le plurime e chiare manifestazioni di dissenso della persona offesa: sin dai primi momenti, infatti, a fronte di un espresso rifiuto, l’imputato le aveva messo un braccio intorno al collo, era sceso dal muretto, si era messo in piedi dietro di lei ed aveva continuato a stringere, chiedendo un bacio ancora negato.
Successivamente, il reo continuava a stringerle il collo, mentre la ragazza gli chiedeva di lasciarla, con tono sempre più agitato, al che il primo l’aveva trascinata a terra e, alle sue grida, le aveva tappato la bocca con delle foglie, mentre l’altra cercava di graffiarlo. Dunque, l’imputato aveva preteso un rapporto sessuale, ottenendo un ulteriore rifiuto. Alla fine, comprendendo di non poter convincere il ricorrente, la persona offesa cedeva alla richiesta, consegnando il profilattico.
Pertanto, il ricorrente ben percepiva il dissenso della persona offesa a consumare il rapporto sessuale.
Ma vi è di più. Le sentenze di primo e secondo grado evidenziavano che nel corso del rapporto erotico, la P.O. cercava di allontanare più volte l’imputato urlando di fermarsi, e solo dopo ripetute richieste aveva ottenuto che questi cessasse il proprio comportamento.
Ebbene, l’imputato non solo aveva percepito il dissenso dallo svolgimento dei fatti, ma anche dalle plurime manifestazioni della giovane, tanto che il successivo rapporto consumato costituiva il culmine di una violenza manifestata poco prima dal ricorrente.
In sintesi, le coordinate tracciate dalle sentenze di merito in riferimento al capo 1) non meritavano censure.
In modo sovrapponibile doveva concludersi per quanto riguardo il capo 2).
Con la quarta censura, la difesa asseriva l’inutilizzabilità ex art. 191 cod. proc. pen. del filmato offerto dalla persona offesa perché manipolato.
Purtuttavia, da un lato, il fondamento stesso della richiesta restava indimostrato; dall’altro, la Corte bresciana riteneva utilizzabile il filmato perché conteneva le “registrazioni più rilevanti” tra quelle eseguite dalla P.O.
A tali considerazioni, poi, la Terza Sezione della Corte di Cassazione aggiungeva che il motivo di ricorso, oltre a svilupparsi su di un inammissibile profilo di merito, risultava generica, in quanto non specifica quali immagini sarebbero state tagliate, con quale contenuto e con quale incidenza sull’esito del giudizio.
Pertanto, non vi era nessuna violazione dell’art. art. 234 cod. proc. pen.
Profili di inammissibilità colpiscono altresì il quinto motivo di ricorso, secondo cui le immagini acquisite non dimostrerebbero alcuna condotta illecita.
A tal proposito, la difesa – nuovamente – richiedeva un’intrusione della Suprema Corte in valutazioni esclusive della sede di merito.
Anche il sesto motivo di ricorso, avente ad oggetto l’elemento soggettivo del reato di cui al capo 2), risultava manifestamente infondato.
Premesso che il motivo si sviluppava lungo un inammissibile profilo di merito e che la richiesta censura trascurava quanto illustrato in sentenza, la tesi secondo cui entrambi i protagonisti della vicenda partecipassero ad uno scherzo era inconsistente.
Sul punto, le risultanze del dibattimento dimostravano che lo “scherzo” veniva percepito unilateralmente dall’imputato e, pur volendo ammettere che questi tenesse una volontà esclusivamente giocosa, il reato di cui all’art. 609 bis cod. pen. è un delitto a dolo generico, tale per cui non potrebbe escludersi la consumazione dell’illecito penale. Sul punto, la Terza Sezione ribadiva l’orientamento preponderante in giurisprudenza secondo cui:
«in tema di reati sessuali, ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, non è necessario che la condotta sia finalizzata a soddisfare il piacere sessuale dell’agente, in quanto è sufficiente che questi sia consapevole della natura oggettivamente sessuale dell’atto posto in essere volontariamente, ossia della sua idoneità a soddisfare il piacere sessuale o a suscitarne lo stimolo, mentre l’eventuale concorrente finalità dell’agente ingiuriosa o minacciosa, così come scherzosa, non esclude la connotazione sessuale dell’azione».
Del tutto infondate erano anche le considerazioni svolte sull’attenuante di cui all’art. 609 bis, comma 3, cod. pen.
I Giudici di Piazza Cavour evidenziavano che quanto annotato rivestiva un carattere di puro merito, non ammesso nel giudizio di legittimità. A tutto voler concedere, le considerazioni svolte non si confrontavano con la sentenza di appello che, con motivazione del tutto congrua e priva di vizi, negava l’ipotesi lieve in esame con molte altre valutazioni.
Il mancato riconoscimento dell’attenuante in parola si basava sulla valorizzazione della durata della
condotta; del suo concreto svolgimento; i luoghi prescelti; l’orario notturno. Tali elementi oggettivi venivano valorizzati in aderenza agli indirizzi interpretativi costantemente affermati.
Infine, anche l’ultimo motivo di ricorso, con il quale si contestava la violazione dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., risultava inammissibile.
Il profilo di inammissibilità risiedeva nella genericità della censura, che non precisava quali integrazioni probatorie erano necessarie ai fini della decisione, impedendo ogni valutazione di merito.
Conclusioni
Rigetta il ricorso proposto dal ricorrente.
—
[1] Per approfondimenti, Cfr. Cass. Pen. Sez. III, 16 aprile 2025, n. 15128, pubblicata in data 08.07.2025 in rivista