SOMMARIO: 1. Massima. 2. Svolgimento del processo. 3. Motivi della decisione. 4. Dispositivo.
Massima
L’accertamento della volontà contrattuale in relazione al contenuto di un negozio, in ossequio all’art. 1362 c.c., si traduce in un’indagine di fatto, demandata all’apprezzamento del giudice di merito, che non è sindacabile in sede di legittimità se condotta secondo le norme di ermeneutica dettate dalla legge e se l’interpretazione adottata sia giustificata da motivazione adeguata ed immune da vizi; tali principi non autorizzano il giudice di merito che, nell’indagine volta ad accertare la comune intenzione delle parti, reputi sufficiente limitarsi al senso letterale delle parole, a leggere parzialmente il testo della clausola da interpretare. Va quindi escluso che il giudice possa compiere una lettura parziale dell’intero contratto, omettendone talune sue parti, perché il “senso letterale delle parole” può essere apprezzato solo prendendo in esame le pattuizioni nella loro interezza, giacché solo una lettura completa è il presupposto di una corretta comprensione del significato letterale della convenzione e, suo tramite, della comune intenzione delle parti.
Svolgimento del processo
La sentenza che si annota ha un indubbio pregio, poiché in sole otto pagine racchiude due insegnamenti afferenti uno al diritto civile e, un altro, alla procedura civile.
Premessa: non vi è dubbio che sussiste sempre un labile confine tra le valutazioni di merito, di per sé incensurabili in sede di legittimità se correttamente motivate, e le operazioni ermeneutiche di merito che, però, celano vizi che si prestano al sindacato di legittimità della Cassazione.
L’art. 1362 c.c. prevede che “Nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”.
L’interpretazione del contratto secondo il comune intento delle parti e alla luce del senso letterale delle parole è una attività del giudice che si risolve in una valutazione di merito che potrebbe sfuggire a censure dalla Corte di cassazione.
In realtà, non sempre questa equazione è esatta.
L’affermazione traspare nella vicenda oggetto della nota a sentenza.
Il proprietario di un’autovettura citava in giudizio la propria assicurazione, poiché gli era stato negato l’indennizzo a seguito del furto del veicolo.
L’attore sosteneva che in orario notturno il bene gli fosse stato asportato mentre era parcheggiata in una pubblica via della Capitale.
Il Tribunale, tenuto conto delle motivazioni addotte dalla convenuta, rilevava come l’assicurazione non fosse tenuta a corrispondere l’indennizzo, sicché il furto era stato perpetrato mentre l’autovettura era stata parcheggiata, in orario notturno, in una pubblica via e non in un garage privato.
Proprio per il Tribunale la lettura della polizza era chiara e per tale ragione era venuto meno l’obbligo di indennizzo assunto dalla compagnia assicuratrice “avendo quest’ultima stipulato il contratto e stabilito il relativo premio a condizione che l’auto fosse ricoverata nelle ore notturne in un garage privato”.
La decisione veniva confermata anche in sede di appello.
Il ricorrente censurava le decisioni di merito mediante articolati motivi.
In particolare, il primo motivo evidenziava che, in una delle clausole, il contratto tra le parti aveva espressamente regolato che gli assicuratori – sempre che il parcheggio risultasse eseguito oltre 500 metri dal garage presso il quale la vettura andava ricoverata – “si impegnavano a risarcire i danni relativi alla Sezione Incendio e Furto del presente documento, fermo restando lo scoperto ed il minimo scoperto indicato nel modulo di polizza”.
Gli altri due motivi non venivano esaminati perché ritenuti assorbiti dall’accoglimento del primo.
Motivi della decisione
(…)
La Corte di Cassazione accoglie il ricorso.
Le doglianze erano fondate e questa valutazione è il risultato di una corretta attività di interpretazione di un contratto, attraverso i criteri ermeneutici offerti dal Legislatore all’art. 1362 c.c.-
Non ha dubbi la Cassazione, sicché il contratto specificatamente contemplava l’ipotesi del parcheggio del veicolo fuori del luogo del ricovero notturno, prevedendo, anche per essa, il pagamento dell’indennizzo, sebbene subordinandolo a specifiche condizioni.
L’insegnamento che se ne trae è chiaro: l’accertamento della volontà contrattuale in relazione al contenuto di un negozio si traduce in un’indagine di fatto, demandata all’apprezzamento del giudice di merito, che non è sindacabile in sede di legittimità se condotta secondo le norme di ermeneutica dettate dalla legge e se l’interpretazione adottata sia giustificata da motivazione adeguata ed immune da vizi; resta pur sempre inteso che tali principi non autorizzano il giudice, che reputi sufficiente limitarsi al senso letterale delle parole, a leggere parzialmente il testo della clausola da interpretare.
Il giudice di merito interpreta e se la sua opera è sorretta da adeguata motivazione e non si pone in contrasto con la legge, la sua valutazione sfugge al controllo di legittimità.
Esito diverso, invece, qualora nella sua interpretazione decide di non osservare l’interezza del rapporto che è frutto dell’autonomia contrattuale privata.
Dunque, è indispensabile “leggere tutto”.
Nel caso in esame, la Cassazione ricorda che al giudice è precluso compiere una lettura parziale dell’intero contratto, omettendone talune sue parti, “perché il senso letterale delle parole può essere apprezzato solo prendendo in esame le pattuizioni nella loro interezza, giacché solo una lettura completa è il presupposto di una corretta comprensione del significato letterale della convenzione e, suo tramite, della comune intenzione delle parti”
L’enunciazione di questo principio di diritto è stata espressa nonostante il ricorrente, come dedotto dal resistente, avesse denunciato, nel complesso, la violazione degli artt. 1322, 1372 e 1882 c.c., e non di norme sull’ermeneutica contrattuale.
Qui risiede l’ulteriore spunto di riflessione in relazione, questa volta, a profili di carattere processuale.
Infatti, sebbene l’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c. preveda che il ricorso deve indicare “i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano, ciò non deve essere inteso quale assoluta necessità di formale ed esatta indicazione dell’ipotesi, tra quelle elencate nell’art. 360, comma 1, c.p.c., cui si ritenga di ascrivere il vizio, né di precisa individuazione degli articoli, codicistici o di altri testi normativi (nei casi di deduzione di violazione o falsa applicazione di norme sostanziali o processuali), comportando invece l’esigenza di una chiara esposizione, nell’ambito del motivo, delle ragioni per le quali la censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta, che consentano al giudice di legittimità di individuare la volontà dell’impugnante e stabilire se la stessa, così come esposta nel mezzo d’impugnazione, abbia dedotto un vizio di legittimità sostanzialmente, ma inequivocamente, riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c.”-
Pertanto, nel ricorso era chiaramente desumibile (non potendosi in alcun modo dubitare), che la volontà dell’impugnante, così come “esposta nel mezzo d’impugnazione”, consisteva senza dubbio nella deduzione di “un vizio di legittimità sostanzialmente, ma chiaramente riconducibile alla violazione dell’art. 1362 c.c., essendosi denunciata un’errata ricostruzione della comune intenzione delle parti a cagione dell’incompleta – o meglio, mutilata – individuazione della lettera delle pattuizioni negoziali”.
(…)
Dispositivo
Per tali motivi, la Corte rigetta il ricorso e condannava alla refusione delle spese processuali.