89 views

Cass. Pen., sez V, ud. 3 aprile 2024 (dep. 25 giugno 2024), n. 25026

- 9 Agosto 2024

SOMMARIO: 1. Massima. 2. Svolgimento del processo. 3. Motivi della decisione. 4. Dispositivo.

Massima

In tema di diffamazione, è necessario che la condotta astrattamente conforme al tipo possieda attitudine offensiva, nel senso che, in relazione alle concrete circostanze del fatto, risulti suscettibile di diffusione e di pregiudizio della stima e del rispetto di cui ogni consociato è meritevole nel contesto di riferimento.

Svolgimento del processo 

Il Giudice di Pace emetteva sentenza di condanna nei confronti di un imputato che, nel corso di un’udienza di un processo civile, in presenza di più persone, apostrofava la persona offesa (parte civile in un processo penale in cui era stato parte anche l’imputato) con l’aggettivo “pezzente”.

Il Tribunale, in funzione di giudice di appello, confermava la sentenza.

L’imputato promuoveva ricorso per Cassazione, sostenendo che la parola “pezzente” non avrebbe integrato la fattispecie ex art. 595 c.p., alla luce della giurisprudenza formatasi in materia di diffamazione.

Inoltre, sosteneva che la decisione sarebbe stata carente sotto il profilo della prova dell’elemento soggettivo del reato, sicché l’intento, sotteso a quella precisa espressione, sarebbe stato esclusivamente quello di esprimere una critica consentita e contestualizzata.

 

Il Procuratore generale domandava dichiararsi inammissibile il ricorso.

Motivi della decisione

(…)

La Cassazione accoglieva il ricorso con annullamento senza rinvio della sentenza perché il fatto non sussiste.

Dunque, l’espressione “pezzente” rivolta alla persona offesa non aveva integrato il fatto tipico delineato dall’art. 595 c.p.

Ancor prima di esaminare il percorso argomentativo che ha comportato l’annullamento della sentenza, va premesso che non vi sia dubbio che, nel comune sentire, essere “etichettati” con il termine “pezzente” sia un comportamento ritenuto contrario al diritto.

Il comune sentire, però, non trova sempre riscontro nell’architettura dell’ordinamento giuridico.

Queste premesse sono di primaria importanza, poiché il diritto penale si fonda su fatti tipici, antigiuridici e colpevoli che, per il relativo accertamento, esige un’indagine pregnante del giudice rispetto al singolo caso concreto e nel rigoroso rispetto dei principi che informano l’intero sistema.

In tema di diffamazione, nel giudizio nomofilattico è consentito al Collegio conoscere e valutare l’offensività dell’espressione che si assume lesiva dell’altrui reputazione, poiché è prerogativa del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell’imputato.

Comprendere se la parola “pezzente” sia o meno offensiva, pertanto, non si traduce in un giudizio di merito, bensì è un giudizio che si focalizza sulla corretta applicazione della legge penale.

Sulla scia di questa premessa, la Cassazione riteneva che non sussistessero gli elementi essenziali del reato di diffamazione.

Il bene giuridico protetto dalla norma è l’altrui reputazione, intesa in senso oggettivo come la considerazione personale di cui ognuno può pretendere di godere nella società civile.

Questo diritto – però – non assume a rango di “diritto tiranno” (nel senso che un’espressione astrattamente offensiva integra sempre il fatto tipico, senza alternativa) poiché deve sempre confrontarsi con l’immanente principio di offensività che, come noto, assume rilevanza costituzionale e costituisce criterio interpretativo-applicativo per il giudice, il quale, nella verifica della riconducibilità di un determinato comportamento al paradigma di una norma incriminatrice, deve circoscriverne la punibilità ai casi in cui esso presenti concreta efficacia o potenzialità lesiva.

Nella specifica tematica del reato di diffamazione, è oramai granitica la giurisprudenza per cui è necessaria un’indagine concreta e pregnante rispetto alla condotta astrattamente conforme al tipo.

È dunque necessario che l’espressione utilizzata possieda attitudine offensiva, nel senso che, in relazione alle concrete circostanze del fatto, risulti suscettibile di diffusione e di pregiudizio della stima e del rispetto di cui ogni consociato è meritevole nel contesto di riferimento.

Orbene, a giudizio del Collegio ciò è mancato nel caso di specie.

Invero, l’istruzione probatoria ha consentito di accertare che:

  • la parola “pezzente” fosse stata pronunciata dall’imputato isolatamente;
  • l’espressione dell’imputato era stata manifestata in modo improvviso ed occasionale;
  • ciò era avvenuto al di fuori di un più ampio ed articolato contesto dialogico, in occasione di un non meglio precisato riferimento, emerso nel corso di un’udienza di una controversia civile;
  • la parola era stata udita dai due patrocinatori della persona offesa, che, dopo aver chiesto ed ottenuto di apprendere a chi fosse rivolta, l’avevano comunicata a quest’ultima (che ha poi formalizzato querela).

Ne discende che la sentenza impugnata si fosse limitata, assertivamente, a chiosare che il termine usato possedesse indiscussa pregnanza offensiva.

Questa la ragione alla base dell’annullamento della sentenza

Per il Collegio, “se per un verso non è dato comprendere il senso compiuto dell’esclamazione nel contesto, peraltro intimamente e necessariamente conflittuale, dell’interlocuzione tra le parti del processo civile in corso, che già di per sé innesta un ragionevole dubbio sulla configurabilità di un inequivoco “attacco ad hominem“, non è possibile cogliere, per altro verso, l’effetto lesivo che si proietterebbe sulla vita di relazione della persona offesa e sul riconoscimento alla sua dignità nella realtà socioculturale circostante”.

L’infelice espressione “pezzente” era stata percepita da due avvocati nel corso dell’udienza, ma non era ravvisabile, alla lettura delle proposizioni delle decisioni di merito, indicatore alcuno e soprattutto appagante della idoneità del mero vocabolo, avulso da un quadro d’insieme minimamente esplicativo, ad incidere sulla reputazione del destinatario di essa, intesa quale patrimonio di stima, di fiducia, di credito accumulato dal singolo nella società e, in particolare, nell’ambiente in cui quotidianamente vive e opera.

(…)

Dispositivo

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

- Published posts: 217

webmaster@deiustitia.it

Leave a Reply
You must be logged in to post a comment.