72 views

Il medico può lecitamente intervenire nella sfera sessuale del paziente soltanto se questi ha prestato il proprio consenso informato – Cass. Pen. Sez. III (ud. 09 ottobre 2024 – dep. 02.12.2024), n. 43877

- 30 Gennaio 2025

SOMMARIO: 1. Massima. 2. Il fatto. 3. La decisione. 4. Conclusioni.

Massima

In tema di violenza sessuale, il medico, nell’esercizio di attività diagnostica o terapeutica, può lecitamente compiere atti incidenti sulla sfera della libertà sessuale di un paziente solo se abbia acquisito il suo consenso, esplicito e informato, o se sussistono i presupposti dello stato di necessità.

Il fatto 

La Corte di appello di Potenza confermava la sentenza di condanna dell’imputato R. E. V. alla pena di anni 4 e mesi 2 di reclusione.

L’imputato proponeva ricorso per Cassazione avverso la sentenza di condanna, sviluppando due motivi.

Con il primo, lamentava la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 609-bis e 43 cod. pen., deducendo l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione.

La difesa argomentava sulla base di una errata lettura delle prove in ordine alla illiceità del comportamento dell’odierno ricorrente, attribuendo valenza sessuale a gesti che, in realtà, ne erano privi, dovendosi perciò concludere per l’assenza dell’elemento soggettivo richiesto dall’art. 609 bis cod. pen.

Con il secondo, denunciava la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione all’art. 609-bis, ult. co., cod. pen., argomentando l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione nella parte in cui escludeva la ricorrenza dell’ipotesi di violenza sessuale di minore gravità, lamentando l’assenza di una valutazione oggettiva sui danni asseritamente patiti dalle vittime della condotta criminosa tenuta.

La decisione

La Suprema Corte dichiarava entrambi i motivi manifestamente infondati.

Il primo motivo si riferiva all’assenza dell’elemento soggettivo del delitto contestato nei confronti delle due persone offese.

In realtà, in riferimento al motivo di ricorso delineato dall’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., la Corte riteneva doverosa una premessa.

La disposizione in questione non consente alla Corte di Cassazione l’indagine sul discorso giustificativo della decisione (c.d. merito), non potendo sovrapporre la propria valutazione a quella già effettuata nei precedenti giudizi. La sua valutazione, di conseguenza, è circoscritta alla sola adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si avvaleva per giustificare il suo convincimento.

Si ingenera il travisamento della prova qualora l’iter logico-giuridico della motivazione del giudice contraddice le rispondenze processuali. In questi casi, il ricorrente, potrà proporre quale ragione del ricorso l’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen, purché sia fatto valere in modo specifico e inequivoco riferendosi alle determinate prove che si asseriscano come travisate.

In altri termini, il travisamento rappresenta lo strumento per saggiare la tenuta della motivazione rapportando la coerenza logica con i fatti posti alla base del ragionamento del giudice di merito.

Di contro, allora, il giudizio di legittimità non può cadere sul fatto, in quanto gli Ermellini non possono sostituire la propria valutazione con quella dei precedenti gradi di merito.

È pur vero, però, che la Corte di Cassazione può vagliare una diversa motivazione, sempreché: a) il ricorrente individui le prove indicate dal giudice ai fini della decisione e ne eccepisca il travisamento; b) le prove travisate e/o quelle omesse siano decisive, in grado cioè di disarticolare il fondamento fattuale del ragionamento logico; c) esse siano allegate per intero all’atto di ricorso o ne sia comunque indicata la specifica collocazione nel fascicolo processuale.

Infine, nel caso di c.d. “doppia conforme” (come nel caso esaminato dalla Suprema Corte) non è consentito eccepire il travisamento mediante la pura e semplice riproposizione delle medesime questioni devolute nell’atto di appello.

Ciò premesso in astratto, in concreto i Giudici di Piazza Cavour ritenevano il primo motivo infondato, in quanto le censure erano meramente ripropositive di quelle già proposte in secondo grado, mancando anche di indicare la fonte dimostrativa che provasse quanto da lui lamentato e, infine, di indicare come le prove travisate od omesse potessero scardinare l’iter logico-giuridico della sentenza impugnata.

Dal compendio probatorio ricostruito dalla Corte di Appello di Potenza emergeva che le attività poste in essere dall’imputato, esercente l’attività di medico, superavano i limiti delle prestazioni richieste. Inoltre, dai Giudici di legittimità veniva considerata priva di pregio l’affermazione secondo cui era assente l’elemento soggettivo del reato, atteso che:

«ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo del reato […] essendo sufficiente che questi sia consapevole della natura oggettivamente sessuale dell’atto posto in essere volontariamente, ossia della sua idoneità a soddisfare il piacere sessuale o a suscitarne lo stimolo, a prescindere dallo scopo perseguito»[1].

Posto nel nulla era altresì il riferimento all’appropriatezza terapeutiche delle pratiche, in quanto il ricorrente non riferiva il mezzo di prova da cui poteva desumersi la corretta acquisizione del consenso a fronte di pratiche mediche inconfutabilmente invasive della sfera della libertà sessuale di due soggetti minorenni, i quali – invece – erano esplicitamente in disaccordo con queste ultime.

Ai fini della legittimità dell’intervento postulante l’intrusione nella sfera sessuale del paziente è imprescindibile l’acquisizione del suo consenso, esplicito e informato, o se sussistono i presupposti dello stato di necessità di cui all’art. 54 cod. pen. A contrario, si attribuirebbe al medico un generale diritto a curare a prescindere dalla volontà del malato, nonché la possibilità di intervenire ignorando il consenso (informato) di quest’ultimo. Ne consegue, dunque, che in riferimento al delitto di violenza sessuale:

«il medico, e in genere il sanitario, può lecitamente compiere atti incidenti sulla sfera sessuale di un paziente solo se abbia acquisito un consenso esplicito e informato dallo stesso, o se sussistano i presupposti dello stato di necessità. E che l’acquisizione del consenso è necessaria a rendere giuridicamente consentito un comportamento altrimenti integrante il reato di violenza sessuale»

La conclusione non potrebbe essere differente in virtù della legge n. 219/2017, il cui articolo 1 si occupa del consenso informato, diretto ad attestare il coinvolgimento del paziente nelle scelte sui trattamenti sanitari da ricevere. Di conseguenza, in assenza di quest’ultimo e della scriminante dello stato di necessità, non può considerarsi legittimo l’intervento del sanitario se il paziente non ha ricevuto le informazioni sulla patologia e sui trattamenti sanitari, acconsentendovi.

Nel caso di minori, il legislatore del 2017 optava per rimettere la decisione ai genitori esercenti la responsabilità genitoriale.

Ugualmente inammissibile era il secondo motivo, relativo alla descrizione degli atti sessuali come di minore gravità.

In disparte la considerazione per la quale i motivi di ricorso non erano altro che una mera reiterazione di quelli già dedotti in appello e già disattesi nella sede; ma la sussunzione del fatto nell’ultimo comma dell’art. 609 bis cod. pen. non poteva essere questione rimessa alla Suprema Corte.

La qualificazione in tal senso presuppone una valutazione calata sugli elementi globali del fatto, preclusa – come analizzato – alla Corte, in cui assumono rilievo criteri quali: 1) la modalità dell’azione, ossia la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto, il tempo e il luogo; 2) la gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; 3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa.

Peraltro, nel caso di specie, le violenze di tipo sessuale venivano perpetrate da un medico sui suoi pazienti, inverano l’abuso del rapporto di fiducia e di affidamento.

Da qui il rigetto anche del secondo motivo.

Conclusioni

La Suprema Corte dichiarava inammissibile il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili ammesse al patrocinio a spese dello Stato.

- Published posts: 294

webmaster@deiustitia.it

Leave a Reply
You must be logged in to post a comment.