
SOMMARIO: 1. Massima. 2. Il fatto. 3. La decisione. 4. Conclusioni.
Massima
La violazione dell’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli, sancito, in attuazione degli obblighi derivanti dalla normativa dell’Unione Europea, dall’art. 3, co. 3-bis, D.lgs. n.216/2003, si traduce nella violazione di doveri imposti di rimuovere gli ostacoli che impediscono ad una persona con disabilità di lavorare in condizioni di parità con gli altri lavoratori, realizzando così una discriminazione diretta.
Il fatto
La Corte di Appello di Napoli, in riforma della sentenza del giudice di prime cure e in accoglimento della domanda dell’appellante, lavoratore dipendente invalido civile, ordinava alla società convenuta, di assegnare detto lavoratore alla sede di Pomigliano d’Arco, ove risiede, per svolgere, da remoto o in regime di lavoro agile, le stesse mansioni espletate presso la sede di assegnazione al Centro Direzionale.
In particolare, la Corte di merito riscontrava la violazione dell’art.3, comma 3-bis, d.lgs. n.216/2003, in relazione alla mancata adozione da parte della società di ragionevoli accomodamenti, prescritti dalla norma in funzione antidiscriminatoria con riguardo ai lavoratori con disabilità, considerati i gravi deficit visivi del lavoratore, invalido civile e tenuto conto che le condizioni di salute di quest’ultimo rendevano l’accesso alla sede di lavoro del Centro Direzionale molto difficoltosa.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello proponeva ricorso per cassazione la società appellata, datrice di lavoro, sulla scorta di due motivi.
Con il primo motivo, il legale della società ricorrente deduceva la violazione e falsa applicazione dell’art.3, comma 3-bis, d.lgs. n.216/2003 (attuativo della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro), nonché dell’art.41 Cost.
In particolare, la ricorrente sosteneva la mancata dimostrazione di discriminazione verso il lavoratore dipendente, invalido civile.
Quanto al secondo motivo, il difensore del ricorrente deduceva la violazione e falsa applicazione degli artt.18 e 19 L.n.81/2017, evidenziando che la Corte di merito, erroneamente, aveva assegnato il lavoratore alla sede più vicina alla sua residenza, senza consentire alla datrice di lavoro di concordare con quest’ultimo l’accesso al lavoro agile, imponendo, tra l’altro sine die, l’adibizione allo smart working, in assenza di previo accordo tra le parti.
Invero, insisteva il legale della società, la normativa in materia richiede la sottoscrizione di un accordo individuale, prevedendo altresì la facoltà di recesso di entrambe le parti in caso di accordi a tempo indeterminato.
La decisione
Ebbene, la Suprema Corte ha ritenuto entrambi i motivi di ricorso infondati.
Più nel dettaglio, avendo riguardo al primo motivo, i giudici di legittimità ricordano, in primo luogo, che sul piano internazionale la tutela contro la discriminazione sulla base della disabilità si fonda sia sugli artt.21 e 26 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché sulla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia con l.18/2009.
In secondo luogo, la Suprema Corte evidenzia che detta Convenzione è stata approvata dall’UE, in guisa che, secondo l’orientamento della Corte di Giustizia UE, le direttive antidiscriminatorie devono essere interpretate alla luce della Convenzione in parola e dunque anche la direttiva di cui trattasi, n.2000/78/2024.
Ne deriva, che ai fini di un corretto bilanciamento tra l’interesse protetto dei lavoratori disabili e le legittime finalità di politica occupazionale, risulta doveroso per il datore di lavoro individuare soluzioni, ovvero accomodamenti ragionevoli, per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili, ex art. 5 direttiva 2000/78/2024.
Tanto premesso, i giudici di legittimità ritengono infondato il primo motivo di ricorso, considerato che la sentenza impugnata risulta conforme al regime probatorio speciale vigente nel diritto antidiscriminatorio.
Difatti, nei giudizi antidiscriminatori i criteri di riparto dell’onere della prova non seguono il regime di cui all’art.2729 c.c., bensì quelli speciali di cui all’art.4 D.lgs. 216/2003, che prevedono un’ agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente; il lavoratore ha l’onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, laddove il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere la natura discriminatoria della misura litigiosa.
Correttamente, pertanto, la Corte di merito, verificata l’effettiva praticabilità, da parte della datrice di lavoro, di adottare ragionevoli accomodamenti, nel rispetto della normativa europea, al fine di rendere concretamente compatibile l’ambiente di lavoro con le limitazioni funzionali del lavoratore disabile, riteneva idoneo all’uopo il regime di smart working.
Invero, dall’analisi condotta in secondo grado, risulta che la datrice di lavoro non versava nell’impossibilità ad adottare i suddetti accomodamenti organizzativi, non comportando quest’ultimi, tra l’altro, per essa società alcun onere finanziario sproporzionato, soprattutto se si considera che il regime di smart working era già stato adottato durante il periodo pandemico.
Inoltre, risulta doveroso evidenziare che la Cassazione si è espressa in più occasioni sul dovere del datore di lavoro di adottare accomodamenti ragionevoli per il dipendente invalido civile che ne faccia richiesta; in particolare, a mezzo dell’ordinanza n.30080/2024, i giudici di legittimità affermavano la possibilità per un lavoratore oncologico di rifiutare di rientrare in servizio, se il datore di lavoro rigetta la sua richiesta di trasferimento in una sede più vicina alla sua abitazione, proprio in virtù della normativa internazionale che impone al datore di lavoro di trovare accomodamenti ragionevoli per il diretto interessato.
Infine, i giudici di legittimità ritenevano infondato il secondo motivo di ricorso, sostenendo che anche in assenza di accordo tra le parti sugli accomodamenti ragionevoli, la soluzione del caso concreto ben può essere individuata dal giudice di merito.
Invero, la Suprema Corte precisa che l’art 17 D.lgs. n. 62/2024, sebbene non applicabile ratione temporis al caso di specie, disciplinando la procedimentalizzazione della facoltà per le persone disabili di richiedere l’adozione di un accomodamento ragionevole, con il conseguente diritto di partecipare alla sua individuazione, riflette il carattere vincolante dell’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli il cui rifiuto costituisce discriminazione in violazione della legge.
Conclusioni
La Suprema Corte rigetta il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.