77 views

La c.d. specialità bilaterale tra il delitto di bancarotta fraudolenta distrattiva e quello di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte – Cass. Pen., sez. II, 2 gennaio 2025 (ud. 27 novembre 2024), n. 47

- 28 Marzo 2025

SOMMARIO: 1. Massima. 2. Il fatto. 3. La decisione. 4. Conclusioni.

Massima

È configurabile il concorso tra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione e quello di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, così come sussiste concorso tra il reato di bancarotta per distrazione e quello di autoriciclaggio nel caso in cui alla condotta distrattiva di somme di denaro faccia seguito un’autonoma attività dissimulatoria di reimpiego in attività economiche e finanziarie di tali somme, in quanto in tale ipotesi si verifica sia la lesione della garanzia patrimoniale dei creditori sia la lesione autonoma e successiva dell’ordine giuridico economico, mediante l’inquinamento delle attività legali.

Il fatto 

Con ordinanza emessa all’esito del giudizio di riesame ex art. 324 c.p.p., il Tribunale di Reggio Calabria confermava l’applicazione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca, tanto diretta quanto per equivalente, nei confronti di due persone fisiche e di una società disponendo, altresì, il sequestro preventivo di quest’ultima.

Nei confronti delle persone fisiche veniva ritenuta la sussistenza del fumus commissi delicti in relazione a molteplici ipotesi delittuose, in particolare: (i) sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte ex art. 11, comma I, secondo periodo, d.lgs. 74/2000; (ii) autoriciclaggio previsto e punito all’art. 648 ter.1 c.p.; e, infine, (iii) bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale disciplinata ai sensi degli artt. 223 e 216, comma I, n. 1, R.D. 267/1942.

Avverso a detta ordinanza proponeva ricorso il difensore della società destinataria della misura cautelare reale nonché ente-indagato ai sensi del d.lgs. 231/2001 con riferimento al reato di cui all’art. 25 octies.

Nell’articolata impugnazione si solleva, con il primo motivo di gravame, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 81 c.p. in materia di concorso formale di reati in relazione al rapporto tra i delitti di cui all’art. 11 d.lgs. 74/2000 e quello disciplinato agli artt. 216 e 223 R.D. 267/1942. La difesa, sul punto, ha osservato che le violazioni penal-tributarie dovrebbero essere assorbite dalla complessità strutturale della fattispecie fallimentare, sulla scorta del rapporto di specialità unilaterale a favore di quest’ultima.

Con il secondo motivo di ricorso, poi, si invocava l’erronea applicazione dell’art. 81 c.p. in relazione alle due distinte incolpazioni autoriciclative. A parere della difesa, difatti, vi sarebbe un’illegittima duplicazione di contestazioni in cui la condotta veniva sussunta, da una parte, nelle fattispecie di bancarotta e, dall’altra, nell’art. 648 ter.1 c.p.

Nel terzo motivo di ricorso veniva dedotta la violazione di legge per l’insussistenza del reato di autoriciclaggio quale conseguenza tanto del delitto di cui all’art. 11 d.lgs. 74/2000 quanto di quello disciplinato agli artt. 216 e 223 R.D. 267/1942.

Con i successivi motivi, poi, si sollevavano molteplici violazioni di legge e l’erronea applicazione della stessa sia con riferimento all’insussistenza dell’elemento soggettivo dei reati di sottrazione fraudolenza al pagamento delle imposte e del reato di bancarotta (quarto motivo) sia in relazione alle contestazioni di bancarotta (quinto motivo) e a quelle di autoriciclaggio (sesto motivo) sia, infine, relativamente all’illecito provvisoriamente contestato all’ente di cui all’art. 25 octies d.lgs. 231/2001 (settimo motivo).

La decisione

L’attenzione della Suprema Corte, preliminarmente, si è focalizzata sull’individuazione dei limiti entro i quali, in presenza di un ricorso c.d. onnicomprensivo, deve operare la decisione. Si sottolinea, invero, come, essendo stato presentato il ricorso esclusivamente in favore della persona giuridica indagata ai sensi del d.lgs. 231/2001, ogni questione concernente il fumus dei delitti provvisoriamente ascritti alle persone fisiche assume rilievo solo allorquando risultino incidenti sulla posizione del ricorrente.

Effettuata tale premessa metodologica, con specifico riferimento al primo motivo di doglianza – inerente al rapporto tra la fattispecie di cui all’art. 11 d. lgs. 74/2000 e quella disciplinata agli artt. 216 e 223 R.D. 267/1942 – il Giudice di legittimità ha, anzitutto, rilevato l’esistenza di un contrasto interpretativo in thema.

Pur essendosi, invero, affermata tanto la configurabilità di un concorso di reati quanto la riconducibilità della condotta di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, ove finalizzata al fallimento, ad una complessiva strategia distrattiva integrante il solo delitto di bancarotta (Cfr., Cass. pen., Sez. V, 10.11.2011, n. 1843, Mazzieri), la Seconda Sezione ha ritenuto di aderire ad un più recente indirizzo di legittimità.

Secondo tale ultimo orientamento, difatti, le due fattispecie criminose in esame devono essere ricondotte ad un’ipotesi di c.d. specialità bilaterale o reciproca (in questo senso, ex pluris, Cass. pen., Sez. V, 14.03.2022, n. 22143; Cass. pen., Sez. V, 20.06.2017, n. 35591; Cass. pen., Sez. III, 20.11.2015, n. 3539).

La Corte, invero, ritiene di escludere che il rapporto tra le fattispecie in questione possa essere disciplinato sulla scorta del criterio di specialità di cui all’art. 15 c.p., non regolando le due disposizioni normative la “stessa materia” intesa come medesimezza del bene giuridico. L’adesione a detto inquadramento – in verità, da tempo superato delle Sezioni Unite Giordano del 2011[1] – che identifica il concetto di “stessa materia” nella identità dell’interesse tutelato (come fosse un revival delle Sezioni Unite La Spina del 1995[2]), conduce il Giudice di legittimità a precisare che mentre il delitto tributario appare preposto a sanzionare condotte che pregiudichino l’interesse fiscale alla corretta e tempestiva riscossione delle imposte, al contrario, quello fallimentare risulta tutelare l’interesse del ceto creditorio al soddisfacimento dei propri diritti.

Deve, poi, a parere della Corte, essere notata l’evidente e profonda diversità strutturale che connota i delitti de quibus sotto molteplici profili: (i) la natura giuridica, di pericolo quella fiscale e di danno quella fallimentare; (ii) l’elemento soggettivo, dolo specifico nel primo caso e dolo generico nel secondo; e, infine, (iii) la soggettività attiva del reato, più ampia per il reato fiscale, essendo astrattamente riferibile ad ogni contribuente, e, viceversa, più ristretta in quello fallimentare, potendo essere gli autori identificabili nell’imprenditore fallito (rectius dichiarato in liquidazione giudiziale) ovvero nelle cariche societarie normativamente tipizzate.

Ed ancora, sottolinea il Giudice di legittimità, che ciò che maggiormente distingue i due reati è, in ogni caso, il bene giuridico tutelato «che rende la norma penale tributaria per così dire “specialissima” ed impedisce il suo assorbimento in quella fallimentare quale “meno speciale” sia sul piano oggettivo sia sul piano soggettivo» (par. 5).

In virtù delle perdette ragioni, la Suprema Corte, nel dichiarare manifestamente infondata la doglianza, conclude sul punto affermando che «nel caso in esame si concretizza non un’ipotesi di concorso apparente di norme, bensì la diversa ipotesi del concorso formale di reati ovvero della continuazione tra distinti illeciti penali di cui all’art. 81, primo e secondo comma, cod. pen.» (par. 5).

In relazione al terzo motivo di ricorso, con il quale invece veniva dedotta l’insussistenza del reato di autoriciclaggio quale conseguenza dell’attività successiva tanto al delitto fiscale quanto a quello fallimentare, la Suprema Corte ha aderito, in primo luogo, l’interpretazione secondo la quale sussiste il concorso tra il reato di bancarotta per distrazione e quello di autoriciclaggio laddove i denari oggetto della condotta distrattiva siano, in un secondo momento, altresì oggetto di un’autonoma attività dissimulatoria di reimpiego in attività economiche e finanziarie (Cfr. Cass. pen., Sez. II, 14.03.2023, n. 13352).

Richiamando, poi, la propria copiosa giurisprudenza sul punto, la Seconda Sezione ha affermato che, pur essendo l’autoriciclaggio un delitto a consumazione istantanea, è un reato a forma libera e può anche atteggiarsi a reato eventualmente permanente, quando il suo autore lo progetti e lo esegua – come nel caso qui in esame – con modalità frammentarie e progressive» (Cfr., ex multis, Cass. pen., Sez. II, 27.04.2016, n. 29611), ovvero a reato solo eventualmente permanente (rectius a formazione progressiva), ove vi siano più condotte consumative del reato attuate in un medesimo contesto fattuale e con riferimento ad un medesimo oggetto (Cfr. Cass. pen., Sez. II, 20.11.2014, n. 52645).

 Sulla scorta delle su menzionate argomentazioni, il Giudice di legittimità ha ritenuto giuridicamente corretta la configurazione del delitto di autoriciclaggio di cui all’art. 648 ter.1 c.p. e, conseguentemente, quella dell’illecito di cui all’art. 25 octies d.lgs. 231/2001 in capo all’ente-ricorrente.

Tutti gli altri motivi di doglianza, poi, sono stati affrontati dalla Suprema Corte motivandone brevemente (nonché a vario titolo) i profili di inammissibilità. Tra tutti, però, appare dirimente la motivazione relativa al settimo motivo di ricorso – nel quale si lamentava la violazione di legge in relazione all’art. 25 octies d.lgs. 231/2001 – con la quale la Seconda Sezione ha svelato la mancanza di legittimazione alla proposizione del ricorso in capo al ricorrente, indagato per i medesimi fatti nello stesso procedimento. Dopo aver citato la granitica giurisprudenza secondo la quale «è inammissibile la richiesta di riesame del sequestro preventivo del compendio aziendale presentata dal legale rappresentante di un ente che sia indagato per il reato presupposto, versando quest’ultimo in una situazione di incompatibilità» (par. 8), la Corte ha concluso per l’inammissibilità anche di quest’ultima doglianza (Cfr. Cass. pen., Sez. Un., 28.05.2015, n. 33041; più di recente, si veda Cass. pen., Sez. II, 13.10.2022, n. 44372).

Conclusioni

La Suprema Corte di cassazione, alla luce delle argomentazioni supra menzionate, ha dichiarato inammissibile il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

[1] Cass. pen., Sez. Un., 19.01.2011, n. 1235, Giordano.

[2] Cass. pen., Sez. Un., 21.04.1995, n. 9568, La Spina.

- Published posts: 317

webmaster@deiustitia.it

Leave a Reply
You must be logged in to post a comment.