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Peculato e la nozione di “altruità” – Cass. Pen. Sez. VI, 23 marzo 2025, n. 10068

- 26 Maggio 2025

SOMMARIO: 1. Massima. 2. Il fatto. 3. La decisione. 4. Conclusioni.

Massima

Integra la condotta del delitto di peculato di cui all’art. 314 c.p. anche la condotta del pubblico agente che si appropri di un bene di un soggetto privato, non esclusivamente della PA. Il concetto di “altruità” non richiede, infatti, l’effettiva proprietà della cosa da parte di terzi, ma deve essere intesa in senso ampio, in quanto è sufficiente che costoro vantino anche solo un diritto reale diverso dalla proprietà o di un diritto personale di godimento. Il carattere di altruità del danaro, invece, sussiste ove una disposizione di legge o contrattuale ne attribuisca sin dall’origine la proprietà alla PA, fondando un vincolo di destinazione a fini di interesse pubblico.

Il fatto 

Con la sentenza in esame, la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla sentenza della Corte di Appello, la quale aveva confermato la condanna di primo grado dell’imputato per il reato di peculato, per aver, in qualità di legale rappresentante della società concessionaria del servizio di riscossione del canone di gestione dei loculi cimiteriali, indebitamente trattenuto le somme che avrebbero dovuto versare alle casse comunali, la somma di Euro 66.570,00.

Il Tribunale di Ancona, con sentenza emessa in data 22 settembre 2022, dichiarava l’imputato responsabile del reato a lui ascritto e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, lo ha condannato alla pena di anni due e undici mesi di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.

Con la pronuncia impugnata la Corte di Appello di Ancona ha confermato la sentenza di primo grado, condannando l’imputato appellante al pagamento delle spese processuali.

In sede di ricorso per Cassazione, il difensore dell’imputato deduceva, con un primo motivo, la falsa applicazione dell’art. 314 c.p. e degli artt. 1321 e 1372 c.c., in quanto i giudici di merito avevano errato nel ritenere che le somme oggetto di appropriazione spettassero originariamente al Comune per la demanialità dei beni cimiteriali.

Secondo la difesa, tale interpretazione non avrebbe tenuto conto della convenzione stipulata tra l’imputato e il Comune, la quale prevedeva una concessione traslativa per l’ampliamento del colombario del cimitero e che il corrispettivo per la concessione fosse costituito dai proventi della gestione loculi, al netto di un canone da versare al Comune.

Pertanto, nel caso di specie, secondo la difesa, il mancato versamento di tali somme configurava un mero inadempimento contrattuale in quanto alcun mandato all’incasso di denaro pubblico era stato conferito da parte del Comune e il canone versato dai privati costituiva il corrispettivo per la costruzione del colombario, anticipato dalla società concessionaria.

Il mancato versamento di tali somme, dunque, non integrerebbe il delitto di peculato, ma solo un mero inadempimento contrattuale, peraltro sfociato in un contenzioso civile.

Con un secondo motivo, la difesa aveva eccepito la violazione degli artt. 42, 43 e 47 c.p.

La Corte di Appello riteneva sussistente il dolo dell’imputato, in quanto l’erronea convinzione della spettanza del corrispettivo, integrerebbe pur sempre un errore in diritto e non già un errore di fatto. Ad avviso della difesa, l’errore scaturito dall’interpretazione delle clausole della convenzione, sarebbe un errore che cade sul fatto, il c.d. “fatto contrattuale”, e non già di errore di diritto.

La questione sottoposta all’esame della Suprema Corte riguarda la corretta interpretazione della nozione di “altruità”, ai fini della configurabilità del peculato.

La decisione

I giudici di legittimità ritengono che il ricorso debba essere rigettato.

Preliminarmente, con il primo motivo, il difensore censurava la falsa applicazione dell’art. 314 c.p. e degli artt. 1321 e 1372 c.c., in quanto le somme oggetto di appropriazione non sarebbero state del Comune e, dunque, saremmo di fronte alla presenza di un mero inadempimento, sanzionabile secondo codice civile.

La Corte precisa che l’art. 314 c.p. punisce l’appropriazione di denaro o cosa mobile “altrui” da parte del pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio che ne abbia il possesso o la disponibilità in ragione del proprio ufficio o servizio.

La riforma introdotta dalla Legge del 1990 ha eliminato l’esigenza che il bene o il denaro oggetto di appropriazione da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio appartenga alla pubblica amministrazione, estendendo il reato anche a chi si appropria di beni appartenenti a privati.

La nozione di “altruità” non implica necessariamente la proprietà del bene da parte dei terzi, ma è sufficiente che il terzo vanti un diritto reale diverso dalla proprietà o un diritto personale di godimento.

Qualora il bene mobile o il danaro sia pervenuto nella disponibilità dell’agente in conseguenza di un’attività privatistica svolta dall’ente di appartenenza, l’assenza di un collegamento con una pubblica funzione o servizio preclude l’istaurazione di un possesso qualificato dalla ragione funzionale e, dunque, impedisce la configurabilità del reato.

Non integra, dunque, il reato di peculato ma costituisce mero inadempimento contrattuale, la condotta del concessionario di aree di parcheggio che omette di versare al Comune la quota pattuita in relazione alle somme riscosse dai privati a titolo di corrispettivo del servizio prestato, in quanto il denaro non corrisposto dall’ente pubblico non appartiene allo stesso ab origine (si veda, Sez. 6, n. 37674/2020, Rv 280289-01).

Il carattere di altruità del danaro sussiste, invece, ove una disposizione di legge o contrattuale ne attribuisca sin dall’origine la proprietà della pubblica amministrazione, fondando un preciso vincolo di destinazione ai fini dell’interesse pubblico.

Nel caso di specie, la Suprema Corte ritiene che i giudici abbiano fatto corretta applicazione dei principi di diritto.

Infatti, la Corte di Appello ha correttamente ritenuto che le somme oggetto di appropriazione aspettassero originariamente al Comune, in quanto derivanti da un vincolo di destinazione del cimitero a fini di interesse pubblico.

In ragione della natura demaniale del terreno cimiteriale, il diritto al sepolcro deriva da una concessione traslativa rilasciata dal Comune al privato, e i proventi di questa concessione facevano parte delle entrate patrimoniali del Comune. Di conseguenza, l’imputato non era autorizzato a trattenere interamente le somme incassate dagli utenti.

Il Comune, dunque sulla base della concessione stipulata con la società del ricorrente e dei contratti sottoscritti con i privati, poteva agire direttamente per l’adempimento delle somme dovute nei confronti dell’eventuale cittadino moroso: sulla base di questi rilievi, i giudici di merito hanno congruamente motivato e correttamente ritenuto l’altruità delle somme oggetto di appropriazione.

La Corte, ha giustamente ritenuto che le somme fossero “altrui” e che, quindi, l’appropriazione configurasse il reato di peculato e non un mero inadempimento contrattuale.

Con il secondo motivo, il difensore eccepiva la violazione degli artt. 42, 43 e 47 c.p., in relazione all’errore scaturito dall’interpretazione delle clausole e della convezione: nel merito il motivo è inammissibile per aspecificità, in quanto la ricorrenza dell’errore è stata solo apoditticamente affermata e, nella specie, ricadrebbe sul fatto ma pur sempre su disposizioni integratici del precetto penale.

Conclusioni

La Suprema Corte reputa il ricorso infondato e lo rigetta.

A detta pronuncia consegue la condanna al pagamento delle spese processuali.

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