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Il delitto di cui all’art. 612 ter cod. pen. è integrato anche nell’ipotesi in cui la persona offe-sa non sia riconoscibile dalle parti intime oggetto di illecita diffusione né da ulteriori ele-menti – Cass. Pen. Sez. V, 25 marzo 2025 n. 11743

- 16 Giugno 2025

SOMMARIO: 1. Massima. 2. Il fatto. 3. La decisione. 4. Conclusioni.

Massima

Il delitto di cui all’art. 612-ter cod. pen., c.d. revenge porn, è integrato anche nell’ipotesi in cui la persona offesa non sia riconoscibile dalle parti intime oggetto di illecita diffusione né da ulteriori elementi. La norma incriminatrice tutela, infatti, le vittime dalla diffusione di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, che avvenga senza il consenso delle persone rappresentate, e non richiede anche che esse siano riconoscibili.

Il fatto 

La Corte di Appello confermava la sentenza di primo grado, con la quale si condannava l’imputato per il delitto di cui all’art. 612-ter cod. pen.

L’imputato, per il tramite del proprio difensore, proponeva ricorso per Cassazione articolando tre motivi.

Il primo concerneva la violazione degli artt. 612 ter, co. 1 e 2, cod. pen. e 192-533, comma 1, cod. proc. pen., nonché il vizio di motivazione, poiché dal messaggio inviato dall’imputato non poteva desumersi che l’immagine sessualmente esplicita ritrasse effettivamente la persona offesa, come, invece, affermavano i giudici di merito, desumendone l’identificazione dal contesto della conversazione tra i due.

Con la seconda prospettazione, denunciava l’infrazione degli artt. 192 e 533, co. 1, cod. proc. pen., nonché il vizio di motivazione illogica.

Il consulente tecnico di parte, dimostrava l’invio, sebbene il materiale non risultava presente sul suo dispositivo, concludendo per la verosimile cancellazione del materiale.

Tale assunto si giustificava per la presenza di uno screenshot della conversazione, il quale – tuttavia – non veniva acquisito al fascicolo del dibattimento.

L’ultimo motivo si riferiva ad una mancata applicazione degli artt. 152, 529, 336 e 340 cod. pen. e del d.lgs. 10 ottobre 2022, n 150, poiché la persona offesa rimaneva assente all’udienza preliminare e dinanzi al Giudice monocratico, tenendo, dunque, un comportamento contrastante con la persistente volontà a che l’imputato venisse penalmente perseguito.

La decisione

La Corte riteneva il ricorso non fondato, ritenendo tutti i motivi proposti inammissibili.

Il primo motivo non poteva trovar seguito in quanto, la decisione impugnata, doveva qualificarsi alla stregua di una “doppia conforme”: il convincimento espresso dalla sentenza di primo grado, veniva ribadita e ripercorsa dalla Corte d’Appello, nonostante le censure mosse dalla difesa.

Tanto premesso, allora, qualsiasi tipo di valutazione di legittimità si sarebbe risolta in una rivalutazione nel merito delle prove.

Tra l’altro, la persona offesa veniva riconosciuta non solo dalle conversazioni intervenute con gli amici, ma anche dai riferimenti posti dall’imputato alla fine della relazione amorosa con la vittima, i quali denotavano la consapevolezza da parte del destinatario dell’identità della donna della quale erano ritratte nelle immagini inviate le parti intime.

Il Collegio precisava, poi, che anche se non fosse stata accertata l’identità della persona, la circostanza sarebbe stata inconsistente.

Ciò in quanto il delitto di cui all’art. 612-ter cod. pen., c.d. revenge porn, è integrato anche nell’ipotesi in cui la persona offesa non sia riconoscibile dalle parti intime oggetto di illecita diffusione né da ulteriori elementi.

La norma incriminatrice tutela, infatti, le vittime dalla diffusione di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, che avvenga senza il consenso delle persone rappresentate, e non richiede anche che esse siano riconoscibili.

Invero, il delitto in esame è collocato nell’ambito di quelli posti a tutela della libertà morale individuale ed è diretto alla protezione della sfera di intimità e della privacy, intesa quale diritto a controllare l’esposizione del proprio corpo e della propria sessualità, in un’ottica di autodeterminazione della sfera sessuale individuale (Sez. 5, n. 14927 del 22/02/2023, T., Rv. 284576, in motivazione), che deve ricevere una protezione assoluta, ossia che prescinda dalla concreta riconoscibilità da parte dei destinatari del video o delle immagini a contenuto sessualmente esplicito della persona le cui parti intime siano rappresentate perché, anche ove ciò non avvenga, si realizza la violazione del bene protetto”[1].

Ugualmente infondato era il secondo motivo.

Stando alla lettura della difesa, l’acquisizione degli screenshot avrebbe dovuto seguire, trattandosi di corrispondenza privata, le forme normate dall’art. 254 cod. proc. pen.

L’argomento veniva ritenuto inconsistente. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 170 del 2023, puntualizzava che le forme previste dall’art. 254 cod. proc. pen., riguardano esclusivamente il sequestro della corrispondenza “in itinere”, non anche le comunicazioni che ormai sono sui dispositivi dei soggetti interessati:

«(…) la disciplina recata dall’art. 254 cod. proc. pen. regola esclusivamente il sequestro di corrispondenza operato presso i gestori di servizi postali, telegrafici, telematici o di telecomunicazioni: dunque, il sequestro di corrispondenza in itinere, che interrompe il flusso comunicativo».

Ugualmente inapplicabile era il principio di diritto affermato dalla recente sentenza n. 39548 del 2024[2].

Una prima ragione consta nella provenienza dell’istantanea, ossia dalla stessa persona offesa.

Di conseguenza, la segretezza della corrispondenza veniva elisa, proprio perché l’immagine veniva consegnata dallo stesso soggetto che aveva partecipato alla conversazione.

In secondo luogo, l’inutilizzabilità dell’immagine non sarebbe dirimente: la produzione documentale non era stata decisiva nell’affermazione della penale responsabilità del ricorrente, questa veniva motivata sulla base delle dichiarazioni convergenti rese sia dalla vittima che dal C., grazie alle quali si è ricostruiva l’accaduto.

Anche l’ultimo motivo veniva ritenuto infondato.

L’art. 152, terzo comma, n. 1, cod. pen. stabilisce che: “vi è remissione tacita della querela anche nell’ipotesi in cui il querelante, senza giustificato motivo, non compare all’udienza alla quale è stato citato in qualità di testimone”.

Contestualmente, l’art. 142 disp. att. cod. proc. pen., disciplina il contenuto dell’atto di citazione, precisando che questo contiene altresì l’avvertimento che la mancata comparizione senza giustificato motivo del querelante all’udienza in cui è citato a comparire quale testimone integra remissione tacita di querela, nei casi in cui essa è consentita.

Ebbene, nella fattispecie in esame, la regola in questione non poteva trovare applicazione poiché la persona offesa non veniva mai citata, siccome il Tribunale, sul consenso delle parti, acquisiva le sue dichiarazioni. Inoltre, perseguire la lettura proposta dal ricorrente, secondo cui l’art. 152, co. 3, n. n. 1, cod. pen. sarebbe applicabile anche laddove la persona offesa non si presenti all’udienza nella quale si presta consenso all’acquisizione al dibattimento delle sue dichiarazioni, significherebbe ampliare il concetto di remissione tacita della querela al di là della volontà del legislatore senza, però, che ne ricorrano le esigenze che giustificavano l’introduzione della nuova ipotesi.

In altri termini, la remissione tacita della querela può realizzarsi esclusivamente laddove il querelante – senza giustificato motivo – non compaia all’udienza alla quale veniva citato in qualità di testimone; di contro, la disciplina dell’art. 152 cod. pen. non sussume anche le ipotesi in cui la vittima che non partecipa al dibattimento quando le parti abbiano dato il consenso all’acquisizione delle sue dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari e, dunque, non sia stata citata in qualità di testimone nel dibattimento.

Conclusioni

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento del e spese processuali.

La pronuncia è criticabile da due punti di vista: contrasta il principio di offensività; contraddice la procedibilità a querela di parte prevista nell’articolo 612 ter c.p.

L’impossibilità di individuare la persona ripresa senza il proprio consenso e, dunque, di ricollegare l’identità della stessa, elide la lesività (e, quindi, l’offensività) della condotta diffusiva.

Non si pretende, ovviamente, che la riconoscibilità pervenga all’esito di un filmato ritraente il viso della vittima, potendo identificarla anche per il tramite di segni particolari (come dei tatuaggi) ovvero da altri elementi della condotta, ad esempio qualora alla pubblicazione si accompagni la diffusione dei dati personali dalla persona offesa dal reato.

Pur non volendo accedere al principio di offensività, ricorrere allo strumento penale ignorando l’identificazione della P.O. porrebbe nel nulla la prevista procedibilità a querela del delitto.

[1] Testualmente la sentenza alle pagine 3 e 4

[2] In tema di mezzi di prova, sono affetti da inutilizzabilità patologica, in considerazione della loro natura di corrispondenza, i messaggi “WhatsApp” acquisiti, in violazione dell’art. 254 cod. proc. pen. mediante screenshots eseguiti dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa e senza ragioni di urgenza, in assenza di decreto di sequestro del pubblico ministero.

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