
SOMMARIO: 1. Massima. 2. Il fatto. 3. La decisione. 4. Conclusioni.
Massima
L’istituto della desistenza può operare soltanto se interviene in una fase nella quale l’attività esecutiva non è ancora esaurita, altrimenti potrà configurarsi soltanto l’ipotesi di recesso attivo. Inoltre, la desistenza per assumere rilievo deve essere volontaria, ossia l’interruzione della condotta deve essere la conseguenza di un’autonoma e libera determinazione del soggetto agente, che decide di arrestare l’azione che ha iniziato a porre in essere senza che sia intervenuto o sopravvenuto alcun fattore esterno che ne impedisca o ne renda vana la prosecuzione.
Il fatto
Il GIP, con sentenza resa il 12 luglio 2019, condannava l’imputato del reato di cui agli artt. 56 e 575, 577, commi 1 e 3, c.p. commesso in danno della moglie alla pena di anni tre, mesi uno e giorni dieci di reclusione.
Il difensore dell’imputato proponeva appello deducendo la mancata applicazione dell’art. 56, comma 3, del codice penale evidenziando che l’imputato avrebbe desistito dall’azione omicidiaria.
La Corte di Appello, tuttavia, non dava seguito alle deduzioni difensive, confermando la decisione resa nel corso del primo grado di giudizio.
Avverso la sentenza l’imputato, a mezzo del difensore, proponeva ricorso per Cassazione, deducendo la violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 56, comma 3, c.p.
In specie, evidenziava che l’imputato non aveva «posto in essere atti diretti in modo non equivoco a cagionare la morte della moglie avendo desistito volontariamente dall’azione o impedito l’evento per recesso attivo».
Per una migliore comprensione del motivo di ricorso è bene sintetizzare la vicenda storica.
L’imputato, tentava di strangolare la moglie con un cavo elettrico predisposto a cappio. L’azione veniva, però, interrotta grazie all’intervento della figlia dei due coniugi, all’esito del quale il prevenuto desisteva dall’azione, lavava il pavimento e si allontanava per costituirsi.
In sintesi, dunque, la condotta tenuta dall’imputato sarebbe dovuta essere qualificata come tentativo incompiuto, tanto da poter ritenere che la vita della vittima non sia mai stata in pericolo e, quindi, considerato che lo stesso interrompeva volontariamente la condotta, il caso di specie sarebbe una tipica ipotesi di desistenza volontaria.
La decisione
Il ricorso, basato sul solo motivo descritto, veniva dichiarato infondato.
La Corte di Cassazione, prima di esaminare il motivo proposto con il ricorso ex art. 606 c.p.p., ricostruiva l’istituto del tentativo. La teoria generale del reato definisce quest’ultimo come la fattispecie generale di reato di pericolo, in quanto caratterizzato «dalla punibilità di atti che, per definizione, non hanno raggiunto lo scopo perseguito dall’agente e tipizzato dal legislatore nella norma incriminatrice di parte speciale».
Il fondamento giuridico della punibilità del tentativo deve essere ravvisato
«nella esposizione a pericolo, o nella mancata neutralizzazione di un pericolo, per il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice e proprio alla luce di detto inquadramento devono essere pertanto valutati gli elementi essenziali della direzione non equivoca degli atti e della loro idoneità, fondamenti strutturali del tentativo, necessari anche al fine di accertare l’intenzione perseguita dall’autore e, quindi, la sussistenza dell’elemento psicologico»[1].
La fattispecie tentata deve essere letta, poi, in modo autonomo rispetto al reato consumato, sicché – come tutti i reati consumati – si rende indispensabile la sussistenza sia dell’elemento soggettivo sia dell’elemento oggettivo.
Il primo si identifica con il dolo – ad esclusione della sua forma eventuale – escludendosi la forma colposa, data l’ontologica incompatibilità con la fattispecie generale.
Da un punto di vista oggettivo, il delitto tentato ruota attorno a tre concetti chiave: idoneità degli atti; univocità degli stessi; il mancato compimento dell’azione o il mancato verificarsi dell’evento.
Dunque, l’azione posta in essere dal soggetto attivo deve esporre al pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice. Tale capacità deve essere comunque esaminata con una prognosi ex post, sulla base delle conseguenze prevedibili dall’agente.
In altri termini, le eventuali difficoltà concrete che il soggetto agente dovesse trovare non rilevano per la sussistenza o meno del tentativo, perché queste ne costituiscono l’essenza. Invero, ogni evento ha una maggiore o minore probabilità di verificarsi e che, proprio laddove non si dovesse verificare, saremo in presenza di un delitto tentato piuttosto che consumato.
Purtuttavia, quest’ultima caratteristica non è di per sé sufficiente a dare rilevanza penale alla condotta, dato che un’azione può essere potenzialmente idonea a conseguire una pluralità di risultati, per cui sola l’univoca direzione può colorare di offensività la condotta tenuta.
Ebbene, quando il legislatore specificava, nell’art. 56 c.p., che l’atto dovesse essere diretto in “modo non equivoco”, costruiva un “criterio di essenza della condotta” diretto a stabilire se l’azione, letta nella sua oggettività (contesto nel quale si inseriva; natura; essenza) potesse rivelare – secondo l’id quod plerumque accidit – il fine perseguito dall’agente.
Gli Ermellini, a tal proposito, ribadivano un principio di diritto ormai consolidato riguardante gli “atti preparatori” e gli “atti esecutivi”.
Infatti, per la configurabilità del tentativo possono assumere rilievo anche i c.d. atti , purché siano in qualche modo tipici, cioè corrispondenti alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata e, di conseguenza, facciano fondatamente ritenere che l’agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, potendosi così affermare che l’azione abbia la significativa probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili, ed indipendenti dalla volontà del reo.
Di conseguenza, la verifica dell’univocità deve essere accertata ricostruendo, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell’agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di identificare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile alla individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo.
Tanto ricostruito in riferimento alla struttura dell’istituto di parte generale, la Suprema Corte chiariva le caratteristiche della desistenza, prevista dal terzo comma dell’art. 56 c.p.
Il presupposto principale dell’istituto è il tentativo incompiuto, pertanto nei casi di tentativo compiuto, al più, può configurarsi l’attenuante del recesso attivo (art. 56, comma 4, c.p.).
Quindi, la desistenza può assumere rilievo solo qualora «intervenga in una fase nella quale l’attività esecutiva non è ancora esaurita, altrimenti può configurarsi solo – in astratto – l’ipotesi del recesso attivo, mediante impedimento dell’evento»[2].
Per ritenere il tentativo non punibile, è poi necessaria la volontarietà dell’interruzione causale della condotta. Detto altrimenti, l’arresto deve provenire da un’autonoma e libera determinazione del soggetto agente, che decide di bloccare l’azione che ha iniziato a porre in essere senza l’intervento di alcun fattore esterno che – per l’appunto – ne impedisca o ne renda vana la prosecuzione.
Tanto premesso in astratto, nel caso concreto la Corte di Cassazione rigettava il ricorso siccome il tentativo era compiuto; e l’interruzione della condotta proveniva dapprima dalla reazione della vittima e, in secondo luogo, dall’intervento della figlia minore che si avventava al fine di fermare il padre.
Conclusioni
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
La sentenza è di grande interesse, perché ha come epicentro un istituto di parte generale (rectius il tentativo) che è in parte ancora discusso in dottrina e giurisprudenza. Si pensi, ad esempio, a quanto espresso sul tema degli atti preparatori. Sebbene la sentenza in rassegna abbia dato atto di una disputa ormai “superata”, è anche vero che si rinvengono ancora pronunce chine sulla distinzione tra “atti preparatori” e “atti esecutivi”.
Al di là di ciò, i principi di diritto distillati dagli Ermellini sono condivisibili, perché frutto di un’attenta riflessione di assunti monolitici sia in giurisprudenza che in dottrina.
Da ultimo, la Cassazione chiarisce (nuovamente) la distinzione tra reato impossibile e tentativo, dando pregio alla teoria per cui l’art. 49 c.p. trova applicazione nei casi di impossibilità assoluta dell’azione[1] e non anche nei casi di impossibilità relativa.
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[1] Pagina 4 della motivazione, nonché Cass. Pen. Sez. V, n. 4033/2015
[2] Così anche Cass. Pen. Sez. II, n. 16054/2018; Sez. V, n. 50079/2017.
[3] Il tentativo è escluso solo dall’inefficienza strutturale o strumentale del mezzo usato o per l’inesistenza in rerum natura dell’oggetto dell’azione.