SOMMARIO: 1. Massima. 2. Svolgimento del processo. 3. Motivi della decisione. 4. Dispositivo.
Massima
Ai fini della configurabilità del delitto di violenza privata è sufficiente che l’agente posteggi l’autoveicolo di cui aveva la disponibilità in posizione tale da ostruire la libera circolazione dell’altrui vettura anche per un breve lasso di tempo, così determinando l’integrazione del reato.
Svolgimento del processo
La Corte di appello di Brescia ha parzialmente riformato la sentenza con cui il Tribunale di Bergamo riteneva l’imputato responsabile del delitto di violenza privata ex. art. 610 c.p., con contestuale rideterminazione del risarcimento del danno pari ad euro 200 per ciascuna parte civile.
Nel caso di specie, l’agente aveva posizionato l’automobile della propria consorte in modo da bloccare il passaggio ad un altro veicolo regolarmente parcheggiato e, nonostante la richiesta di spostare il mezzo promossa dalle parti offese, non aveva rimosso la propria vettura per un determinato periodo, così determinando l’intervento della Polizia locale. Il difensore dell’imputato, impugnata la decisione della Corte di appello di Brescia, proponeva ricorso per cassazione che si articolava in cinque motivi.
Con riferimento al primo motivo, si ravvisava violazione di legge nella misura in cui la Corte di appello desumeva la configurabilità del capo di imputazione contestato nonostante la mancata contestuale presenza dell’imputato e delle vittime nel momento in cui l’agente effettuava il parcheggio della macchina, ostruendo la possibilità di manovra dell’altrui veicolo, e così integrando al massimo un mero comportamento scarsamente collaborativo, non sussumibile nella fattispecie criminosa contestata.
Quanto al secondo motivo, il difensore eccepiva il mancato assorbimento del reato di violenza privata nella fattispecie criminosa di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Sotto tale profilo, le persone offese avevano occupato uno dei posti riservati all’imputato, il quale si era limitato a posizionare posteriormente il veicolo da lui guidato, per cui le condotte compiute dai soggetti passivi configurerebbero un’indebita compromissione del diritto di proprietà e del possesso dell’agente che potrebbe così agire per la sua tutela in sede civile.
Negli ulteriori tre motivi, la difesa del ricorrente lamentava poi la mancata concessione della circostanza attenuante della provocazione ex. art. 62, n. 2, c.p. e delle c.d. attenuanti generiche ex. art. 62-bis c.p., nonché della recidiva di cui all’art. 99, primo comma, c.p., che era stata ritenuta sussistente solamente in virtù di una valutazione fondata sui precedenti penali dell’imputato e senza procedere ad un corretto accertamento dell’esistenza del nesso tra il reato contestato e le antecedenti condanne.
Infine, risulterebbe incongrua la mancata concessione della sospensione condizionale della pena ex. art. 164 c.p., in virtù della presenza di un precedente patteggiamento e dell’irrogazione di un decreto penale di condanna avente ad oggetto una pena pecuniaria.
Motivi della decisione
(…)
I motivi esaminati dalla Suprema Corte possono essere così brevemente sintetizzati:
-Preliminarmente, con riguardo all’erronea configurabilità del delitto di violenza privata da parte della Corte di appello di Brescia, giova osservare che vari orientamenti della giurisprudenza di legittimità si pongono in netto contrasto con le asserzioni difensive, secondo cui ai fini della sussistenza dell’art. 610 c.p. occorrerebbe la simultanea presenza dell’agente e della vittima.Quest’ultima ricostruzione interpretativa promossa dal difensore dell’imputato attraverso la menzione di un risalente indirizzo giurisprudenziale non è pertinente, giacché dall’esame di tale pronuncia si evince che l’imputato non aveva consentito all’altrui vettura il passaggio rispetto ad un luogo in cui quest’ultima non aveva diritto di transito (Cass. pen. Sez. V, 30 settembre 1998 n. 11875; Cass. pen. Sez. V, 16 ottobre 2017 n. 1913).
Va poi precisato che proprio le sentenze richiamate dalla difesa del ricorrente non solo ribadiscono la configurabilità del reato di cui all’art. 610 c.p. nell’ipotesi in cui l’agente collochi il proprio veicolo in modo tale da ostruire le vie di accesso e di passaggio all’altrui vettura, ma valorizzano anche una interpretazione estensiva dell’espressione “violenza”, per cui il reato oggetto di esame è integrato dall’esercizio di qualunque energia fisica da parte del soggetto attivo da cui deriva, quale conseguenza, la compressione della volontà o della libertà di autodeterminazione della persona offesa.
Sotto tale profilo, persino la concezione dottrinale maggiormente restrittiva ha ricondotto nel concetto di violenza qualsiasi violazione dei beni giuridici inerenti l’individuo, tra cui occorre necessariamente menzionare anche la libertà di circolazione.
Nel caso de quo, la compromissione dell’interesse protetto della vittima risulterebbe confermata dalle risultanze processuali ove si evince che la parte offesa era in stato di gravidanza e aveva rinunciato alla prescritta visita medica a causa dell’impossibilità di spostare il proprio veicolo.
Orbene, la sussistenza degli elementi costitutivi dell’illecito penale di cui all’art. 610 c.p. potrebbe agevolmente desumersi dal tenore della condotta dell’imputato che ha prodotto l’insorgenza di un “pati” in capo al soggetto passivo, ovvero la creazione di un disagio per un determinato lasso temporale da cui è derivato, quale esito, un vulnus alla libertà di autodeterminazione altrui, senza che la contestuale presenza delle parti fosse necessaria.
-Con riguardo al secondo motivo, esso è inammissibile poiché, secondo un seguito indirizzo giurisprudenziale, ricorre il delitto di violenza privata e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza nei confronti delle persone qualora l’agente superi i limiti dell’agire per un proprio asserito diritto e così determini la violazione dell’altrui libertà individuale (Cass. pen. Sez. V, 28 novembre 2013 n. 7468).
Nel caso di specie, il comportamento dell’imputato non è preordinato all’esercizio di un presunto diritto che poteva essere soddisfatto da un organo giudicante ma si è esplicato in un mero atteggiamento ritorsivo attuato nei confronti delle parti civili.
-Quanto al terzo motivo, esso è manifestamente infondato e privo di logica specificità.
Secondo un orientamento giurisprudenziale prevalente, la circostanza attenuante dell’aver agito in stato di provocazione non si applicherebbe qualora sussista una netta sperequazione tra l’illecito altrui e il reato commesso dall’agente, la cui gravità, talmente evidente, esclude nel caso de quo la preesistenza di uno stato d’ira (Cass. pen. Sez. V., 19 gennaio 2022 n. 8945).
Orbene, l’assenza di proporzione tra il comportamento dell’imputato e quello delle parti offese risulterebbe palese giacché l’ostruzione dell’area di parcheggio attuata nei riguardi delle vittime, di cui una in stato di gravidanza, e per un rilevante lasso di tempo, non è equiparabile al mancato rispetto dell’ingiunzione rivolta soltanto con missiva alle parti offese,- peraltro pervenuta successivamente rispetto alle vicende processuali di cui si discute,- di lasciare uno spazio libero per un altro veicolo.
Nemmeno può ritenersi idoneo a provare il nesso causale tra offesa e reazione il mancato adempimento del canone di locazione dell’appartamento dell’imputato, di cui i soggetti passivi erano conduttori.
Infine, la mancata concessione delle circostanze attenuanti è stata ampiamente motivata da parte della Corte di appello di Brescia, in virtù del comportamento processuale tenuto dall’imputato e della sua resipiscenza nei riguardi delle parti civili e degli organi di polizia municipale.
-Con riferimento agli ultimi due motivi, essi sono entrambi inammissibili perché, rispettivamente, generici e infondati.
La Corte di appello di Brescia ha adeguatamente impiegato i principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di adozione della recidiva e dei criteri di commisurazione della pena di cui all’art. 133 c.p.
Nel caso specifico, l’imputato risulta già gravato da alcuni precedenti penali relativi al delitto di usura e infedele dichiarazione annuale d’imposta (2001,) nonché per il reato di rifiuto d’indicazione sulla propria identità personale ex. art. 651 c.p.
Inoltre, la valutazione prognostica della recidiva da parte della Corte territoriale deve ritenersi corretta, in quanto l’irrogazione della sanzione penale è subordinata ai principi di congruità e proporzionalità rispetto alla gravità del fatto contestato e alla capacità a delinquere dell’agente, che può desumersi anche in ordine al contegno serbato nonostante l’intervento della polizia municipale.
Il giudice di merito non ha poi ritenuto l’imputato meritevole della concessione della sospensione condizionale della pena sulla base di una valutazione prognostica negativa, legata alla probabilità che quest’ultimo non si astenga dal compimento di ulteriori illeciti penali e alla scarsa efficacia deterrente delle precedenti condanne.
(…)
Dispositivo
La Suprema Corte reputa inammissibile il ricorso e condanna l’imputato al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma pari a 3000 euro presso la Cassa delle ammende.