
SOMMARIO: 1. Massima. 2. Svolgimento del processo. 3. Motivi della decisione. 4. Dispositivo.
Massima
La presente sentenza tratta dell’illegittimità costituzionale dell’articolo 12, comma 5, del D. Lgs. N. 109/2006 recante normativa in materia di sanzioni disciplinari nei confronti dei magistrati che siano stati colpiti da sentenze penali divenute irrevocabili. Con tale pronuncia, si conferma quell’orientamento della Corte Costituzionale che vuole cercare di mitigare gli automatismi sanzionatori che, ad oggi, permeano il sistema penale italiano, eliminando i criteri di ragionevolezza.
Svolgimento del processo
La questione di legittimità costituzionale trae origine dall’ordinanza di rimessione n. 26693/2023 presentata dalle SS.UU. Civili della Corte di Cassazione in virtù di un dubbio di costituzionalità, ritenuto non manifestamente infondato e rilevante, sull’articolo 12, comma 5, del D. lgs. N. 109/2006, in riferimento agli artt. 3, 97, 105, 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo per relazione con l’art. 8 CEDU, «nella parte in cui dispone che si applica la sanzione della rimozione al magistrato che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso codice, senza prevedere che sia comunque rimessa all’Organo di governo autonomo la valutazione concreta della offensività della condotta al fine di una eventuale graduazione della misura sanzionatoria».
L’ordinanza di rimessione è da inserire nel contesto di un giudizio disciplinare reso da parte del Consiglio Superiore della Magistratura a carico di un giudice penale che, presso il Tribunale di Caltanissetta, era stato condannato penalmente per falso in atto pubblico (aggravato ai sensi dell’articolo 476, secondo comma, c. p.) per aver apposto firma apocrifa della Presidente di sezione (con consenso di questa) su tre atti giudiziari. Il giudizio disciplinare, com’è ovvio, era stato sospeso in attesa della decisione penale, avvenuta a seguito di giudizio abbreviato (pena di due anni e quattro mesi di reclusione). La sentenza penale di prime cure era stata confermata tanto in secondo grado che in Cassazione.
Motivi della decisione
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La sezione motivazionale più di rilievo è il Punto 1.2. dei “Considerato in fatto”: trattandosi di un automatismo sanzionatorio, quello posto in dubbio di costituzionalità, se venisse abrogato per illegittimità costituzionale il comma 5, art. 12, D. lgs. 109/2006, automaticamente verrebbe cassata la sentenza della Sezione disciplinare, in quanto verrebbe «escluso l’automatismo sanzionatorio di cui all’indicata norma (e) la pronuncia andrebbe riformata per violazione degli artt. 4 e 12 del medesimo decreto legislativo per non avere il Collegio dell’Organo di governo autonomo scelto con la dovuta discrezionalità la risposta al fatto contestato sulla base del giudizio di proporzionalità e appropriatezza tipico del procedimento disciplinare».
Per quanto concerne i parametri, è vagliata la costituzionalità della norma oggetto di giudizio in relazione agli articoli 3, 97, 105, 117, 1° comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’articolo 8 CEDU. Su quest’ultimo parametro, quello che ha destato i maggiori dubbi e che presenta delle peculiarità motivazionali legate all’ineludibilità del c.d. dialogo fra Corti, è rilevante notare come il giudice rimettente lo consideri come parametro legato al concetto di “ingerenza privata nella vita lavorativa” e vengono citati precedenti giurisprudenziali di rilievo della Corte alsaziana, più o meno recenti.
Inoltre, verrebbe leso l’articolo 8 CEDU non solo in relazione al concetto di vita privata, ma anche in relazione al concetto di proporzionalità e determinatezza della sanzione rispetto all’illecito commesso. Trattandosi di un automatismo sanzionatorio, lo stesso risponde ad esigenze di mera punizione, più che di bilanciamento e controbilanciamento di interessi: viene in rilievo che il ricorrente è un uomo di sessant’anni, che non sarebbe in grado né di godere dei trattamenti pensionistici per non raggiunta anzianità di servizio nonché di cercare un nuovo lavoro, essendo ormai a carriera quasi terminata.
In relazione agli articoli 3 e 105 Cost., il giudice a quo valuta un paragone con la sentenza n. 197/2018: questa sentenza censurava l’automatismo sanzionatorio sotteso ad una norma disciplinare che sanzionava esplicitamente un determinato illecito, anch’esso disciplinare. In questo senso, si deve intendere l’individuazione di una “species facti”, quantomeno. Nel nostro caso, invece, l’automatismo si fonda esclusivamente su una considerazione di tipo quantitativo: si relega l’irrogazione della sanzione disciplinare massima, ossia la rimozione dall’incarico, quando sia raggiunto un tot di anni di pena, anche se questa rappresenta una forte generalizzazione della materia.
Il rimettente censura anche l’esclusione ipso iure del vaglio di non irrogazione della sanzione per particolare tenuità del fatto di cui all’articolo 3-bis del medesimo decreto legislativo. Chi ricorre ritiene che non ci sia una “via di mezzo”: o tutto, o niente, o il massimo della sanzione ovvero l’impunità.
Ma il punto di più grande (e grave) rilievo è la sovrapposizione tra il piano penale e quello disciplinare: se è vero – com’è vero – che il concetto di presunzione fa leva su un processo di inferenze logico-giuridiche che conducono dal noto all’ignoto, allo stesso modo sembra eccessivo e aprioristico dedurre conseguenze disciplinari (gravi) dalla presenza di una sentenza penale. Pur essendo i due giudizi legati da un nesso di pregiudizialità del penale sul disciplinare, comunque si tratta di due piani distinti: “la rimozione quale sanzione conseguente a condanna in sede penale potrebbe, allora, essere considerata costituzionalmente legittima solo ove risultasse «comunque conservato in capo all’Organo disciplinare il potere-dovere della valutazione discrezionale in ordine alla proporzionale graduazione della misura da applicare al caso concreto».”
Di dubbio gusto, secondo il rimettente, anche la compatibilità dell’articolo censurato con l’art. 97 Cost., in quanto verrebbe leso il principio del buon funzionamento della P.A., in sede di amministrazione della giustizia.
(…)
Dispositivo
La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante «Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150», limitatamente alle parole «o che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del Codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso Codice».
Secondo la Corte, dunque, la questione di legittimità costituzionale è ammissibile.
Nello specifico, in relazione all’articolo 3 Cost., la questione è fondata, in quanto, citando la sentenza n. 197/2018, che già aveva trattato la questione di legittimità sul medesimo articolo 12 del Decreto legislativo n. 109/2006, risulta chiaro che la sanzione dev’essere proporzionata e, soprattutto, utile ed idonea, soprattutto se si parametra tale concetto con la necessità di garantire tutela alla categoria dei magistrati. Tuttavia, per la prima volta in questo caso, la Corte si trova ad analizzare la legittimità costituzionale di una norma che vincola la discrezionalità del Consiglio Superiore della Magistratura, Sezione disciplinare.