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La preclusione all’accesso al rito abbreviato costituita dall’art. 438, comma 1 bis cod. Proc. Pen., è costituzionalmente legittimo – Corte Costituzionale (ud. 10 dicembre 2024 – dep. 17.01.2025) n. 2

- 16 Aprile 2025

SOMMARIO: 1. Massima. 2. Il fatto. 3. La decisione. 4. Conclusioni.

Massima

La Corte Costituzionale dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1-bis, del codice di procedura penale, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera a), della legge 12 aprile 2019, n. 33 (inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 27 e 111 della Costituzione.

Il fatto 

La questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’Assise di Cassino, con ordinanza del 12 aprile 2024, traeva origine da un processo per omicidio aggravato dall’aver agito per motivi abietti e futili di cui agli artt. 575 e 577, primo comma, numero 4), del codice penale, quest’ultimo in relazione all’art. 61, numero 1), cod. pen., per il quale è prevista la pena dell’ergastolo, da parte di S.D.C.

L’imputato richiedeva di definire il processo con le forme del rito abbreviato, la quale veniva dichiarata inammissibile ai sensi dell’art. 438, comma 1 bis cod. proc. pen., essendo il delitto contestato punito con l’ergastolo.

L’ordinanza di rimessione veniva motivata per il tramite di tre, possibili, contrasti.

Il primo contrasto si innerverebbe in relazione agli artt. 3 e 27 Cost., con riferimento al giudizio di comparazione tra le fattispecie autonome di reato che prevedono la pena dell’ergastolo e i delitti che pervengono a tale estrema sanzione solo in virtù di contestate, riconosciute e valutate come plusvalenti circostanze che aggravano la fattispecie base per cui è prevista una (seppure elevata) pena detentiva a termine.

Il giudice rimettente riteneva questa equiparazione irragionevole, in quanto accomunare in una medesima norma processuale di sfavore «fatti-reato dissimili e smaccatamente di diversa gravità» dovrebbe ritenersi lesivo dei principi di uguaglianza, proporzionalità e finalismo rieducativo della pena.

L’ordinanza proseguiva sottolineando un ulteriore contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., alla luce della novella legislativa del 2022 che introduceva l’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., secondo cui la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto in caso di non impugnazione della sentenza di condanna emessa in un procedimento definito con rito abbreviato.

Per effetto di tale novella legislativa, si verrebbe a determinare un eccessivo e irragionevole ampliamento della forbice edittale di pena detentiva astrattamente comminabile, tale per cui la contestazione di una sola circostanza aggravante condurrebbe alla irrogazione della pena dell’ergastolo (con conseguente preclusione per l’accesso al giudizio abbreviato), laddove, per l’ipotesi-base, la pena detentiva minima ammonterebbe (anche in applicazione dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen.) a sette anni, nove mesi e dieci giorni.

«L’eccessivo iato tra queste due ipotesi renderebbe la preclusione contenuta nella disposizione censurata ancor più irragionevole rispetto al quadro emergente dal contesto normativo su cui sono intervenute le precedenti decisioni di questa Corte e si porrebbe anche in contrasto con la finalità rieducativa della pena, atteso che il reo non potrebbe «comprendere adeguatamente […] il disvalore del proprio comportamento».

In ultimo, sarebbero lesi anche gli artt. 3, 24 e 111 Cost.

In caso di giudizio immediato, infatti, la traslazione del processo direttamente in dibattimento, senza il filtro dell’udienza preliminare, determinerebbe un vulnus dei diritti della difesa, perché la contestazione dell’aggravante, formulata dal pubblico ministero e valutata dal giudice per le indagini preliminari, non sarebbe vagliata da un giudice terzo e imparziale a seguito di un’adeguata interlocuzione con la difesa.

Di conseguenza, l’imputato verrebbe privato della possibilità di accedere al giudizio abbreviato per effetto di un atto riconducibile unicamente al pubblico ministero.

La decisione

La Corte Costituzionale riteneva le questioni non fondate.

La prima obiezione, relativa all’equiparazione di delitti puniti con la pena base dell’ergastolo con quelli puniti con tale pena solo nella forma aggravata, veniva ritenuta non fondata.

Sul punto la Corte ribadiva un principio già espresso con l’ordinanza n. 163 del 1992:

«[…] l’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai reati punibili con la pena dell’ergastolo, non è in sé irragionevole, né l’esclusione di alcune categorie di reati, come attualmente quelli punibili con l’ergastolo, in ragione della maggiore gravità di essi, determina una ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri reati, trattandosi di situazioni non omogenee».

Susseguentemente la Corte privava di pregio la critica relativa al trattamento deteriore che deriverebbe, per gli imputati di delitti cui consegue la pena detentiva perpetua in ragione della sussistenza di circostanze aggravanti, rispetto agli imputati di delitti puniti, nella loro ipotesi base, con l’ergastolo.

 Il Giudice delle Leggi, infatti, rilevava che la censura, in casi del genere, doveva riguardare la previsione che dispone la pena perpetua, ossia – nel caso di specie – l’omicidio aggravato dai motivi abietti e futili. In altri termini, era proprio la norma incriminatrice a giustificare tale disparità di trattamento.

Partendo da tale premessa, la Corte Costituzionale evidenziava come la preclusione all’accesso al giudizio abbreviato costituiva: «null’altro che il riflesso processuale della previsione edittale della pena dell’ergastolo per quelle ipotesi criminose, previsione che non è oggetto di censura da parte del rimettente».

Pertanto, la preclusione contenuta nell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. è costituzionalmente stabile essendo dotata di una solida ragionevolezza: la scelta legislativa di far dipendere l’accesso al giudizio abbreviato dalla sussistenza di una circostanza a effetto speciale

«esprime un giudizio di disvalore della fattispecie astratta marcatamente superiore a quello che connota la corrispondente fattispecie non aggravata; e ciò indipendentemente dalla sussistenza nel caso concreto di circostanze attenuanti, che ben potranno essere considerate dal giudice quando, in esito al giudizio, irrogherà la pena nel caso di condanna»[1].

Parimenti infondata era la seconda questione, la quale richiamava l’irragionevolezza della preclusione dopo l’entrata in vigore dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., che attribuisce al giudice dell’esecuzione il potere di ridurre di un sesto la pena inflitta nel caso in cui la sentenza di condanna resa in esito allo svolgimento di un giudizio abbreviato non sia stata impugnata né dall’imputato né dal suo difensore.

L’ordinanza di rimessione era viziata perché trascurava il principio di proporzionalità della pena. Questo è particolarmente evidente nel delitto di omicidio, siccome affascia condotte dal disvalore differente: dall’assassinio compiuto da un sicario o da un membro di un gruppo criminale contro un esponente di una cosca rivale, alla brutale uccisione della moglie o della compagna, sino a condotte maturate in contesti di prolungata e intensa sofferenza, causata da una lunga serie di soprusi e maltrattamenti posti in essere – colpevolmente o no – dalle stesse vittime.

Proprio per questi rilievi, unitamente alla considerazione per i caratteri del fatto di reato contestato all’imputato nel giudizio a quo, chiariscono la non fondatezza del secondo motivo di censura avanzato dalla Corte d’assise di Cassino.

Infine, non fondata era l’ultima considerazione riferita agli artt. 3, 24 e 111 Cost.

Se da un lato è vero che «la facoltà di chiedere i riti alternativi – quando è riconosciuta – costituisce una modalità, tra le più qualificanti ed incisive di esercizio del diritto di difesa»[2], dall’altro è anche vero che la negazione legislativa di tale facoltà non comprima in nessun modo quest’ultimo. Infatti l’accesso ai riti speciali è parte integrante della garanzia di cui all’art. 24 Cost., a condizione che il legislatore ne abbia previsto l’esperibilità.

In sintesi, dall’art. 24 Cost. non può desumersi un diritto assoluto e tiranno di qualunque imputato ad accedere a tutti i riti alternativi previsti dall’ordinamento processuale penale.

Inconsistente era altresì la prospettata richiesta motivata sulla circostanza per cui in caso di giudizio immediato – ove la traslazione del processo è direttamente in dibattimento, senza il filtro dell’udienza preliminare – la contestazione dell’aggravante non sarebbe vagliata da un giudice terzo e imparziale a seguito di un’adeguata interlocuzione con la difesa.

 In realtà, l’ordinanza ignorava l’art. 438, comma 6-ter, cod. proc. pen., secondo cui il giudice è in ogni caso tenuto ad applicare la riduzione di pena prevista per il rito speciale in questione nel caso in cui, in esito all’accertamento del fatto, siano ritenute insussistenti le aggravanti contestate dal pubblico ministero che avrebbero determinato l’applicabilità della pena dell’ergastolo e, quindi, l’inammissibilità del giudizio abbreviato ai sensi dell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen.-

Di conseguenza, la valutazione del pubblico ministero «è poi oggetto di puntuale vaglio da parte dei giudici che intervengono nelle fasi successive del processo, ed è sempre suscettibile di correzione […]»[3].

Conclusioni

Le questioni di legittimità costituzionale sollevate devono essere dichiarate non fondate.

[1] Corte Cost. 260/2020.

[2] Corte Cost. sentenze n. 273 del 2014, n. 333 del 2009 e n. 219 del 2004.

[3] Corte Cost. sentenza n. 260 del 2020.

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