
SOMMARIO: 1. Massima. 2. Il fatto. 3. La decisione. 4. Conclusioni.
Massima
Non può essere riconosciuta all’interno dell’ordinamento giuridico statuale italiano la decisione di ripudio (talaq), pronunciata dall’autorità straniera, in seguito alla decisione unilaterale del marito, ravvisandosi una violazione degli artt.64 ss. L. n. 218/1995, sotto il duplice profilo dell’ordine pubblico sostanziale e processuale. Le registrazioni anagrafiche nei registri di Stato civile dei provvedimenti stranieri di rito islamico fondati sul talaq, violano l’ordine pubblico sostanziale e processuale, e come tali sono inammissibili nell’ordinamento italiano, con la conseguenza che, ove effettuate, se ne deve ordinare la cancellazione.
Il fatto
Una donna, di origine bengalese, ma residente in Italia, dopo 10 anni di matrimonio e dopo aver subito abusi e vessazioni dal marito per tutta la durata del rapporto, decideva di avviare la procedura di separazione nei confronti di questo, oltre a sporgere querela per maltrattamenti in famiglia.
Al fine di avviare la procedura di separazione, ella richiedeva all’Ufficio di stato civile del Comune di Ancona la scheda anagrafica in cui era stato annotato l’atto di matrimonio; in tale occasione scopriva che il marito aveva già divorziato da lei a sua insaputa, in data 10.05.2023, secondo il rito islamico che prevede la formula del ripudio (talaq).
Non solo, dunque, la donna non era stata informata del ripudio, ma il marito aveva anche ottenuto l’annotazione nella scheda anagrafica della sentenza di divorzio proveniente da paese d’origine, presso l’Ufficio di stato civile del Comune di Ancona e, conseguentemente, lei risultava anagraficamente di stato civile libero.
Per questo motivo, la donna (di seguito ricorrente) demandava alla Corte d’appello di Ancona, di ordinare la cancellazione dell’annotazione dai registri di stato civile del Comune di Ancona della sentenza di divorzio per ripudio emessa dall’Autorità del Bangladesh, in quanto contraria agli artt. 64, co.1, lett. g) e 65 L. n. 218/1995, all’ordine pubblico interno e internazionale, oltre che alle norme e ai principi della Costituzione italiana, perché priva di ogni disposizione a tutela della prole e del diritto al mantenimento della moglie.
Si costituiva in giudizio il marito, chiedendo il rigetto del ricorso in parola, affermando la legittimità dell’annotazione effettuata dall’Ufficiale di Stato civile del Comune di Ancona.
La decisione
I motivi che hanno spinto la Corte d’appello di Ancona ad accogliere il ricorso in esame sono diversi e meritano puntuale disamina, abbracciando questioni di diritto internazionale a tutela della persona.
I giudici di merito osservano che parte resistente aveva ottenuto l’atto di divorzio per ripudio (talaq) in Bangladesh in data 10.05.2023 e che, successivamente, riusciva ad ottenere anche l’annotazione del provvedimento in parola presso il Comune di Ancona, secondo quanto previsto ex lege.
Richiamando un orientamento della Suprema Corte (Cass. n.16804/2020), la Corte d’appello precisa che l’istituto del talaq(«scioglimento da un legame») rappresenta una forma particolare di scioglimento del matrimonio islamico pronunciato in seguito a decisione unilaterale del marito nei confronti della moglie, attraverso espressioni formali che esprimono in modo inequivocabile la volontà di porre fine all’autorità maritale sulla sposa.
Con il termine talaq s’intende proprio la possibilità riservata all’uomo di sciogliere il matrimonio con un atto unilaterale di volontà, non recettizio, che può quindi essere perfezionato anche senza che la moglie ne sia a conoscenza.
Più nel dettaglio, il provvedimento che incorpora il ripudio si limita a recepire il potere unilaterale del marito con funzioni di omologa e di presa d’atto della volontà di quest’ultimo di sciogliersi dal vincolo coniugale.
I giudici di merito affermano che ai fini del riconoscimento di tale atto nell’ordinamento italiano, gli artt. 64 ss. L. n. 218/1995 dispongono che i provvedimenti stranieri in materia personale e familiare devono essere annotati in pubblici registri in Italia e l’autorità preposta all’annotazione deve verificare la sussistenza dei requisiti previsti dagli artt. 64 e 65 L. n.218/1995.
In particolare, secondo il disposto dell’art. 65 della legge citata, i provvedimenti stranieri relativi alla capacità delle persone, nonché all’esistenza di rapporti di famiglia o di diritti della personalità, hanno effetto in Italia quando siano stati pronunciati dalle autorità dello Stato la cui legge è richiamata dalle norme della L. n.218/1995 e purché non siano contrari all’ordine pubblico e siano stati rispettati i diritti essenziali della difesa.
Tanto premesso, la Corte d’appello chiariva che la compatibilità con l’ordine pubblico ex artt. 64 ss. L. n. 218/1995 esige una valutazione ampia, comprensiva non solo dei principi fondamentali della Costituzione e dei principi sovranazionali, ma anche delle leggi ordinarie e delle norme codicistiche e che varia da caso a caso.
I giudici di merito, in relazione al riconoscimento in Italia del ripudio islamico, richiamano l’orientamento della Suprema Corte che da tempo nega la possibilità di riconoscere efficacia al ripudio unilaterale dichiarato in contumacia della moglie, rilevandone la contrarietà all’ordine pubblico internazionale; quest’ultimo, ricordano i giudici, è costituito dai principi fondamentali di uguaglianza e dal divieto di discriminazione tra i sessi, nonché dal diritto di difesa e dal principio del contraddittorio.
Sulla scorta di quanto argomentato, la Corte d’appello di Ancona rilevava che il provvedimento di scioglimento del matrimonio tra le parti in causa risultava del tutto incompatibile con detti principi.
Invero, secondo i giudici, nella fattispecie di cui è causa non era stato rispettato il principio dell’ordine pubblico processuale, non essendo stati garantiti, nell’ambito del procedimento di divorzio per ripudio, il diritto di difesa della ricorrente e la garanzia dell’effettività del contraddittorio.
Dagli atti del giudizio emergeva infatti che il provvedimento di ripudio si fondava sulla mera presa d’atto della volontà del marito e che diveniva definitivo in seguito alla notifica formale dello stesso nei confronti della moglie; a quest’ultima, in realtà, era stato negato il diritto di difesa e la garanzia dell’effettività del contraddittorio, essendo venuta a conoscenza della decisione unilaterale del marito solo per caso fortuito.
Del pari, evidenziano i giudici, manca qualsiasi accertamento da parte dell’Autorità del Bangladesh circa l’effettiva cessazione del rapporto affettivo e di convivenza dei coniugi.
Ancora, il provvedimento in parola risulta contrario anche all’ordine pubblico sostanziale, essendo l’istituto del talaq[1]discriminatorio nei confronti della donna, posto che solo il marito è abilitato a liberarsi dal vincolo matrimoniale con la formula del talaq, senza necessità di addurre alcuna motivazione effettiva, quindi in violazione degli artt. 14 CEDU, nonché 3 della Costituzione.
Deve tenersi in conto, inoltre, che il provvedimento di ripudio annotato dal Comune di Ancona non contiene alcuna disposizione in merito alla tutela dei figli minori e, pertanto, anche sotto tale profilo risulta contrario all’ordine pubblico, con particolare riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost.
Conclusioni
La Corte d’appello di Ancona dichiarava meritevole di accoglimento il ricorso ex art. 67 L. 218/1995, proposto dalla moglie ripudiata, non potendo essere riconosciuto, per le ragioni suesposte, nell’ordinamento italiano il provvedimento di ripudio pronunciato dall’autorità bengalese, ravvisandosi la violazione degli artt. 64 ss. L. n.218/1995, sotto il duplice profilo dell’ordine pubblico sostanziale e processuale.
Di conseguenza, la Corte in parola ordinava la cancellazione dell’annotazione dell’atto di divorzio per ripudio del 10.05.2023 tra le parti in causa, dai registri dello stato civile italiano del Comune di Ancona.
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[1] Per una disamina completa del riconoscimento del talaq, si rinvia ex multis alla sentenza Sahyouni c. Mamisch della Corte di giustizia UE, utile per riflettere diffusamente sul principio di non discriminazione nell’ordinamento dell’Unione Europea (Corte di giustizia UE, Sez. I, 20 dicembre 2017, C-372/16, Sahyouni c. Mamisch).